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Approfondimenti

I miei nonni paterni si chiamavano Cosimo Boccadamo e Consiglia Boccadamo…

Storia di una famiglia salentina entrambi nati nel rione “Ariacorte” di Marittima

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I miei nonni paterni si chiamavano, rispettivamente, Cosimo Boccadamo e Consiglia Boccadamo.


Erano nati, entrambi, nel rione “Ariacorte” di Marittima, secondo i registri di stato civile dell’epoca in via Acquaviva, a distanza di sette anni l’uno dall’altra, precisamente, lui nel 1879 e lei nel 1886, dalle coppie di coniugi Generoso Silvestro/Eva e Domenico/Cosima. Accanto a Cosimo, in famiglia, esisteva la sorella Salvatora, insieme con Consiglia, invece, il fratello Luigi.


Esatta parità, perciò, circa il numero di componenti dei due nuclei, fra i quali non è dato di sapere se intercorressero nodi di parentela: verosimilmente, no, almeno di genere stretto, mentre non sono da escludere rapporti di grado lontano, nell’ambito del centinaio abbondante di Boccadamo all’epoca viventi a Marittima.


Sicuramente, i miei ascendenti in discorso dovevano conoscersi sin da bambini. Generoso faceva di mestiere il contadino, Domenico, da parte sua, il pescatore, in tale attività coadiuvato, una volta divenuto grandicello, dal figlio Luigi e, anche, per determinate incombenze sulla terraferma, dalla figlia Consiglia. Analogamente, Cosimo fu condotto a seguire le orme paterne nei lavori in campagna, attività che perpetuò durante l’intera esistenza, ovviamente fino a quando si mantenne abile.


A parte gli anzidetti dettagli operativi/occupazionali, ebbero a porsi, Generoso e Domenico, alla stregua di vere e proprie pietre miliari e di preziosi indicatori. Nel senso, che gli appellativi impostigli all’atto del battesimo giungevano puntualmente a comparire e a risuonare non solo con diretto riferimento alle loro persone, ma pure, indirettamente, ai fini dell’identificazione e della chiamata in causa, da parte della comunità paesana, dei rispettivi discendenti.


In tal guisa, le definizioni di Cosimo e Tora ‘u (di) Generosu in seno al primo nucleo famigliare e di Consiglia e Luigi ‘u (di) Minicone (questo accrescitivo dialettale, giacche Domenico era un uomo molto alto, precisamente, un omone) in seno al secondo. Analogamente, le denominazioni aggiuntive, ‘u Generosu e ‘u Minicone seguitavano, e ancora adesso, diffusamente seguitano, vieppiù, ad accompagnare i nomi propri originali delle generazioni succedutesi nel tempo, figli, nipoti e pronipoti.


Lui ebbe un’altra fidanzata, ma non andò buon fine


Vigendo gli ultimi calendari del XIX secolo, Cosimo già giovanotto e Consiglia adolescente e giovinetta, la conoscenza e, poi, la frequentazione fra i due si accrebbero. Per la verità, lui ebbe per prima fidanzata (zita, in dialetto) un’altra ragazza dell’Ariacorte, Marta, ma detto legame non si consolidò definitivamente, proprio, forse, perché Cosimo provava maggior piacere e interesse nel concentrare gli sguardi sulla personcina di Consiglia, nonostante quest’ultima non si appalesasse affatto dolce di sale o accondiscendente o adesiva con facilità.


Dai suoi racconti o aneddoti, è tratta la scenetta del giovane Cosimo, intento, insieme con il padre, a zappare in un fondo agricolo limitrofo all’insenatura “Acquaviva”, denominato “Oscule” (bosco) e di Consiglia che, in quel mentre, saliva a piedi dalla rada, recando sul capo una cassetta di specialità ittiche appena pescate e sbarcate dal padre e dal fratello, per portarle a Marittima e venderle a qualche famiglia abbiente.


Spontanea l’iniziativa verbale di Cosimo: “Dai, Consiglia, lasciaci due/ tre pesci, così ce li arrostiamo sulla brace e potremo accompagnare le nostre friselle, a colazione”. E, però, spontanea e pure decisa fu la reazione, della ragazza, di non dare minimamente ascolto e di tirare dritto. Il nonno trovò occasione, nell’arco di decenni, di rispolverare ripetutamente questo episodio, non senza rinfacciarlo scherzosamente alla controparte protagonista.


Non più “zitu” di Marta, Cosimo si fidanzò “in casa” con Consiglia, la quale, tuttavia, data anche la fresca età, specialmente nei primi tempi del loro sodalizio sulla carta, non dimostrava di attribuire soverchia importanza e assiduità al nesso meramente sentimentale e di vicinanza e contatto con il partner, preferendo seguitare a frequentare le sue amiche del rione e attendendo, unitamente a loro, ai rituali giochi di quei periodi.


“Consiglia, ancora in giro sei? Perché non torni a casa e facciamo l’amore?” (Ovviamente nel significato e col correlato contenuto di fine 1800), la esortava la sera Cosimo, e lei a replicare: “Guarda, prima, devo finire questa partita a campana con le mie compagne”.


Giunse il giorno delle Nozze


Sia come sia, giunse il giorno delle nozze e, dalla casa della sposa, si mosse il tradizionale corteo, attraverso l’Ariacorte, per dirigersi verso la parrocchia. Se non che, sempre a quanto resomi in racconto, nell’atto di transitare davanti all’abitazione di Marta, la ex zita di nonno Cosimo, per rabbia e ripicca, pensò  di disotturare lo scarico di una grande vasca lapidea, in dialetto pila, presente nel proprio cortile e ricolma di acque sporche (sciotte), residuo di un grosso bucato, lasciando defluire il non trasparente  e non olezzante liquido, a modo di cascatella, sulla strada in quel momento percorsa dal corteo nuziale e dalla processione di parenti e invitati, con indosso eleganti abiti da festa.


Completamente diversi di carattere, sotto l’aspetto intellettivo, nelle tendenze e preferenze, Cosimo e Consiglia vissero lungamente e intensamente, in ogni senso, generando una numerosissima prole; in aggiunta ai sei figli sopravvissuti, Silvio, Eva, Maria, Vitale, Lucia e Rocco, considerato, del resto, che, un secolo fa, erano frequentissimi i casi di mortalità infantile, furono in realtà fautori, perlomeno, di altrettante nascite.


Donna forte, dotata di una spiccata memoria (teneva perfettamente a mente, ricordo io, le date di arrivo al mondo, matrimonio e morte di tutta la parentela e non solo), la nonna non intendeva essere da meno nel confronto col consorte, il quale, magari, si lamentava di rientrare a casa, la sera, esausto per la fatica nei campi, sicché, di sovente, lo attendeva a bella posta sull’uscio tenendo in braccio uno dei figlioletti, piangente: “Tieni, prendilo un po’ tu, ha passato in questo modo l’intero giorno, facendomi disperare”.


Al che, l’uomo, così nella sua narrazione a noi nipotini e anche ad altre persone, celiava che fosse lei a regalare ai pargoli qualche pizzicotto, ovviamente foriero di strilla e lacrime. A parte qualche piccola sceneggiata della specie, chi, sostanzialmente, comandava in casa, era la nonna Consiglia soprannominata ‘u Miniconenaturale riflesso, in seguito, fu quel nomignolo aggiuntivo famigliare e non l’altro inerente al nonno Cosimo, ossia dire ‘u Generoso, a cadere e perpetuarsi sia in capo ai loro figli, sia sui discendenti dei medesimi, sia, infine, in termini estesi, nell’ambito della comunità di Marittima.


Consiglia, dunque autorevole, forte e in gamba, fisico e portamento ben eretto sino all’età avanzata malgrado le sopra accennate innumerevoli gravidanze/maternità, stimata e rispettata dai parenti e dai compaesani, a partire dal fratello Luigi che, in segno di attaccamento e di omaggio, volle chiamare Consiglio il suo unico figlio maschio che, oltre a fare il contadino, il frantoiano, il nachiro, capo dei frantoiani, si sarebbe dedicato anche alla pesca, come il padre e il nonno Domenico.


Piccola rimembranza risalente alla mia remota fanciullezza, nel cortile della attigua abitazione di zio Luigi e di zia Amalia (sua moglie), salitasene al cielo, guarda caso, nel giorno dell’Ascensione del 1950, campeggiava un grosso manufatto/parallelepipedo in pietra viva, non molto largo ma alto e cavo all’interno, detto in dialetto “stompu”, utilizzato per versarvi cereali, sia grano che orzo, di propria produzione, e frantumarli mediante la mazza, lunga e robusto attrezzo in legno terminante in forma ovoidale, cereali che sarebbero stati successivamente cotti e consumati a tavola come minestra.


Mio padre Silvio fu il primo sposarsi


Ambedue i miei nonni paterni in discorso, essendo mio padre Silvio il loro primogenito e il primo, in ordine temporale, a sposarsi, avevano un intenso e più consolidato legame giusto con la mia diretta famiglia, volevano, in particolare, un bene dell’anima a mia madre Immacolata e noi ragazzini, spesso, ci trattenevamo, nel pomeriggio o alla sera, nella loro vicina abitazione, d’inverno scaldandoci, insieme con il nonno, all’interno del focalire (camino) e, talvolta, consumavamo la cena frugalissima, una minestra posta a tavola in un unico grande piatto, in compagnia, appunto, dei nonni e degli zii e zie.

Come pure, verso la prima la fine della Seconda Guerra Mondiale, erano questi ultimi, ancora giovani, che correvano a casa nostra, di notte, nell’avvisaglia del passaggio di aerei militari nemici, con potenziale rischio di bombardamenti, caricandosi in spalla noi piccoli nipoti e conducendoci al buio nel vicino appezzamento agricolo di Monticelli, per attendere che il pericolo fosse superato.


Pur trovandomi in così stretta vicinanza e frequentazione con loro, raramente mi è capitato di assistere a dissapori o litigi fra i nonni Cosimo e Consiglia, tranne che in un’isolata occasione. Correva il 1953, ci trovavamo nella stagione fredda, di lì a poco, la prima domenica di marzo, si sarebbe svolta, a Marittima, la rituale fiera/mercato della Madonna di Costantinopoli, una sera, nonno Cosimo con la pipa in bocca, io e un mio fratello, ce ne stavamo seduti, al solito, nel focalire e nonna Consiglia, lì vicino, era intenta a filare, col fuso, batuffoli di lana accanto alla figlia Lucia e al di lei fidanzato Peppino.


In un dato momento, l’anziana donna si mise a dire: “Fra poco, si terrà la fiera e quest’anno, in vista del matrimonio di Vitale (altro figlio), ci toccherà fare una serie di acquisti”. Passando poi a un lunghissimo elenco di oggetti, magari tutti necessari e utili.


Il nonno ascoltava e, forse, man mano, conteggiava approssimativamente il costo richiesto da tali compere, col rischio anche di dover indebitarsi; a nota non ancora completamente esaurita, fu un attimo, non potendone più, egli interruppe bruscamente la moglie con un solenne, autoritario e ultimativo invito, ad alta voce, a piantarla.


Risultato, la nonna proruppe in un pianto dirotto, in ciò imitata anche dalla zia Lucia. Riguardo ai matrimoni dei figli, qualche anno prima, esattamente nel 1948, era stato celebrato quello di zia Maria, andata sposa a zio Vittorio, marittimese trasferitosi per lavoro a Francavilla Fontana nel brindisino, dove, per ciò, la coppia era andata a mettere su casa.


La nonna Consiglia, senza nulla togliere all’intensità del suo trasporto materno verso gli altri discendenti, dimostrava ed aveva una certa predilezione per Maria e Vittorio; probabilmente, mi vien da pensare, perché era stata vicina alla figlia durante i lunghi anni di assenza del suo fidanzato per vicende di guerra e di prigionia e, in aggiunta, perché, da sposati, i due erano andati ad abitare lontano da Marittima.


Mio nonno andava a piedi fino a Brindisi


A conferma di ciò, la nonna, che mai si era prima allontanata dal paesello, a differenza del marito che di viaggi  ne aveva compiuti (in tradotta sino a Belluno, per partecipare alla Grande Guerra, a piedi, non possedendo una bicicletta e non potendosi permettere di pagare il biglietto del treno, sino a Brindisi, due volte l’anno, per lavorare negli stabilimenti vinicoli e nei frantoi, a Napoli, infine, nel 1935 o 1936 per accompagnare il figlio Silvio partente volontario per l’Africa Orientale), iniziò a far su e giù da Francavilla Fontana, anche trattenendosi  lì per brevi periodi, non solo in occasione della nascita di due nipoti ma pure in altri momenti dell’anno, immancabilmente intorno a metà settembre, nella ricorrenza della festa della Protettrice di quella cittadina, la Madonna Fontana.


Analogamente, la vigilia della già ricordata fiera della Madonna di Costantinopoli a Marittima, quando zio Vittorio, che collaborava con un commerciante all’ingrosso ma anche ambulante di tessuti, si accingeva a venire nel nostro paese per allestirvi la baracca di esposizione e vendita, la nonna si prodigava in mille preparativi per non far mancare, a lui al suo “principale” (datore di lavoro) una cena speciale.


Sempre in tema di sposalizi, a nonna Consiglia, toccò purtroppo di essere protagonista/vittima di un episodio, se non propriamente drammatico, certamente non lieto; la mattina del giorno stabilito per le nozze della figlia Lucia (1953), a mezzo di una scala di legno, l’anziana donna sì portò su una scansia (ripostiglio), ricavata alla sommità di una parete di casa, per prelevare un oggetto o qualcosa che serviva.


Sfortunatamente, la poveretta ebbe a scivolare, non ricordo se sul ripostiglio o sulla scala, precipitando rovinosamente sul pavimento, con notevoli ammaccamenti fisici, per fortuna, almeno, senza necessità di ricovero in ospedale.


Di primo acchito, si pensò di rimandare lo sposalizio, poi prevalsero le riflessioni sui preparativi già fatti e sulle relative spese e, quindi, fu egualmente festa, sebbene pervasa da un rigurgito di tristezza e da qualche lacrima specialmente nel sentire della sposa, zia Lucia, con la nonna, dolorante, costretta nel suo letto.


Consiglia sopravvisse all’incidente, si riprese bene e resto con i suoi cari, sino al raggiungimento, nel 1974, dell’apprezzabile età di ottantotto anni.


Nonno Cosimo campò fino a 102 anni


Traguardo, invero, non confrontabile con quello che ebbe l’avventura di raggiungere la sua metà, nonno Cosimo, il quale campò fino al 1982, ossia a dire oltre centodue primavere, accudito, nell’ultimo lungo periodo, dalle figlie e dalle nuore.


Notazione leggera, la sera delle esequie di nonna Consiglia, familiari e parenti stretti riuniti in casa nostra per consumare la cena, nella circostanza preparata, secondo l’usanza, da una famiglia del paese amica o legata da vincoli di parentela,bisunia” in dialetto, rammento che, in una pausa del pasto, una mia sorella pensò di chiedere all’avo: “Nonno, visto che tu hai molti anni più di lei, non ti dispiace che, per prima, sia mancata la nonna? Non avresti preferito che si rispettasse l’anzianità, compiendo tu, adesso, i tuoi giorni al posto suo?”.


Il vecchio uomo restò qualche istante in silenzio, per poi rispondere: “Nipote mia, sia sempre fatta la volontà di Dio, ma la vicenda d’oggi sta bene così com’è andata”.


Mi piace terminare questa semplice e, insieme, sentita rievocazione in ricordo dei miei ascendenti per via paterna, soffermandomi su due ultimi particolari relativi a nonna Consiglia. Ella era fortemente affezionata a un gatto, rimastole accanto per lunghissimi anni e che alla fine era divenuto enorme, guai a chi lo toccasse o non lo trattasse bene.


Inoltre, amava, anche in questo caso gelosamente, i fiori, il piccolo cortile di casa sua si presentava sempre arricchito da molte varietà semplici ma variopinte, dalle zinnie agli astri cinesi, ai garofani, alle rose e alle calle, queste ultime svettanti in un angolo di terriccio adiacente all’imboccatura di una cisterna per la raccolta d’acqua piovana, a lato di una parete muraria interamente ricoperta da un rampicante sempreverde e per lunghi periodi fiorito in una gradevole tonalità lilla.


Rocco Boccadamo


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Parabita, un giorno con Anna Garzia

La poetessa, che vive a Parabita, decanta l’amore materno, immenso, che va oltre ogni pretesa e che si caratterizza, sempre, per una dolce attesa, lì, a dare forma ad ogni azione. …

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Docufilm. “Un giorno con… Anna Garzia”. Nei versi l’amore materno, immenso, oltre ogni pretesa

Sale le scale, come se fossero quelle della vita che portano ad un bel panorama nonostante le difficoltà, l’autrice Anna Garzia, protagonista del docufilm “Un giorno con…”, targato Aletti editore. «Raccontarsi è sempre un bel momento» – esordisce così la poetessa, che fa dei suoi versi l’espressione più intima di se stessa, dei suoi sogni, della realtà che si intreccia con i desideri. Versi che parlano di amore, quello puro, quello vero, quello di una madre, che è l’unico autentico. Del resto, Anna è nata proprio nel giorno della festa della mamma, ma l’amore, invece, quello che pensava essere con la A maiuscola, le ha fatto male, e non è stato facile voltare pagina facendo i conti con la solitudine. 

Una bambina vivace, ma anche timida e riservata, cresciuta mescolando emozioni e pensieri, tra giacigli di foglie e di storie raccontate. Una bambina diventata donna grazie a due mamme, la sua e una zia paterna adottiva. “Madre per sempre… Da quel lembo di cuore, l’unico vero amore”. E, poi, mamma di quei figli che Anna definisce «tre girasoli, che hanno reso meraviglioso il suo percorso di vita ma, a volte, anche difficile».

La poetessa, che vive a Parabita, decanta l’amore materno, immenso, che va oltre ogni pretesa e che si caratterizza, sempre, per una dolce attesa, lì, a dare forma ad ogni azione. 

«Non sono stati i tacchi a farmi donna, ma un sottile gioco di vita – racconta, nel docufilm che scorre sugli “Spartiti del tempo”, l’autrice ai suoi lettori e spettatori». Non toglie lo sguardo poetico sulla bellezza della natura, del Sud, con i suoi sorrisi, profumi e sapori; sul suo Salento, sul confine tra cielo e terra, sul mare ora in tempesta, ora di una calma piatta, quasi spaventosa, senonché, di colpo, partoriva onde di profumata brezza e non costava nulla, qui, illudersi”; sul cielo, che a volte somiglia a qualcuno che ha solo voglia di piangere, nonostante provi a fermarsi” e fa sprofondare in una profonda tristezza e malinconia, finché non si pensa al tempo che passa veloce e che segna l’arrivo di altre stagioni da vivere all’insegna di nuove speranze. Lo sguardo su tutto ciò che l’ha sempre accolta come una culla dove si è lasciata trasportare, che ha visto le sue lacrime di gioia, di dolore, le sue ansie.

E alla sua terra dedica dei versi. “Ogni granello di sabbia, qui nel mio Salento, ti dà ristoro e, mentre accarezzi con i piedi il suo suolo rovente della tua amata terra, la passione perduta ti riempie il cor e la mente”.

La passione per la scrittura nasce in età adolescenziale, con la penna su fogli, biglietti, giornali, in modo anche disordinato, a volte. Ma d’altronde la vita è così, spesso il caos regna dentro e fuori. «Io definisco la mia poesia un flusso di esternazioni vere e proprie, distrutte, strappate, perse, rifatte». Tra momenti difficili e speranze, Anna diventa maestra e i bambini sono stati, per lei, «raggi laser di entusiasmo, di vita, meraviglia e bellezza». Una passione sopita che Anna riscopre è, poi, quella del teatro, con le emozioni che suscita stare sul palcoscenico.

Nel docufilm, girato a Tivoli (Roma), le parole si fondono con le immagini, dove si alternano paesaggi naturali e foto dell’autrice, bambina e, poi, donna, fragile e forte, poetessa e mamma. A concludere il video, le parole di Alessandro Quasimodo, figlio del Premio Nobel per la Letteratura, Salvatore Quasimodo.

«I testi di Anna Garzia non solo enunciano tematiche di carattere esistenziale, ma anche problemi attuali che si presentano ogni giorno. La vita è breve; occorre recuperare il significato profondo dell’istante, saperlo apprezzare e imparare a dare significato ad ogni aspetto del nostro viaggio terreno. I versi brevi imprimono un movimento a tutto il testo, che si basa su due piani: realtà e desiderio. La bellezza aiuta a sublimare percezioni e stati d’animo».

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Letture estive: “I miei compagni di scuola” di Rocco Boccadamo

Nel mio ultimo libro “Zia Valeria”, è compresa una narrazione dal titolo “1952/1960 – Il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori”, che qui pubblico, soprattutto, a beneficio di quanti non avessero già avuto modo di leggerla e/o volessero farlo adesso…

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I miei compagni di scuola

Nel mio ultimo libro “Zia Valeria”, è compresa una narrazione dal titolo “1952/1960 – Il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori”, che qui pubblico, soprattutto, a beneficio di quanti non avessero già avuto modo di leggerla e/o volessero farlo adesso.

In seno a detta “storia”, rievocativa di un importante aspetto degli anni belli del “ragazzo di ieri”, sono, fra l’altro, indicati i nomi dei compagni delle Superiori, per come, mentre scrivevo, sono riuscito a scorrerli in rassegna, a mente.

Successivamente, invece, ho chiesto e ottenuto dall’Istituto Tecnico Commerciale “Cezzi – De Castro” di Maglie, l’elenco ufficiale della 5^ classe, sezione B, di cui facevo parte, che, pure, accludo.

Dal 1960 al 2024, sono passati ben sessantaquattro anni.  Ebbene, a così tanta distanza di tempo, mi è stato dato, con emozione, di ricontattare, risentire e, in alcuni casi, rivedere, una parte dell’antica scolaresca di ragionieri.

In aggiunta, nelle more di poter, più avanti, organizzare un incontro collettivo, ho voluto inviare o consegnare in dono, a tutti i miei compagni, una copia del libro richiamato in apertura.

Tranne, con rammarico, agli undici che, purtroppo, non ci sono più.

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1952/1960, il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori

Traggono, insolitamente, abbrivio, le presenti note, da un commento, inerente a una mia narrazione di qualche settimana fa, postatomi via Facebook da Giorgio Ruggeri, originario di Uggiano La Chiesa, per cinque anni compagno di classe, anzi contermine di banco, alle scuole superiori, e, però, mai più rivisto dal lontanissimo 1960: “Hai tanti bei ricordi della tua terra. Mi aspetto qualche pubblicazione di quel mitico Istituto Tecnico di Maglie che abbiamo lasciato nel 1960. Ti saluto”.
Prima di tracciare la specifica rievocazione invocata dall’antico coetaneo e amico, ritengo opportuno soffermarmi su un minuscolo rosario di “pillole” delle mie esperienze scolastiche antecedenti, afferenti, per l’esattezza, al ciclo delle “Medie”.

Invero, conseguita la licenza elementare, mi successero, inanellandosi, una serie di piccoli e però particolari eventi, che lasciarono qualche segno in quelle correlate tenere stagioni. Intanto, iscrittomi per frequentare, a Maglie, il richiamato corso di studi, iniziai concretamente a farlo in un canonico (per l’epoca) 1° ottobre, ricordo, nella sezione “Prima D”, docente di lettere il giovane professore Francesco Erroi. In parallelo, mi sistemai, come “pensionante”, presso una famiglia della cittadina, dove si trovava già, alloggiato in analoga formula, un mio compaesano, nonché parente, il quale attendeva alle lezioni nel locale Liceo classico.

***

Sennonché, scivolate via, sì o no, un paio di settimane, giunse a mio padre, impiegato comunale, la notifica della mia ammissione a un convitto dell’Inadel (Istituto di previdenza per i dipendenti degli enti locali) ubicato ad Anagni (FR), dove, purché fossi stato di anno in anno promosso, avrei potuto compiere l’intero percorso formativo, fino alla maturità o al diploma, in regime completamente gratuito, compresi vitto, alloggio, libri di testo e tasse scolastiche. Peraltro, ad Anagni, nella medesima struttura scolastica dell’Inadel, intitolata al Principe di Piemonte, c’era già, da un biennio, il mio fratello maggiore Antonio. Lasciai, quindi, in fretta e furia, la scuola di Maglie e, accompagnato in treno dal citato genitore, raggiunsi il convitto nella cittadina laziale. Ma la relativa esperienza, nonostante si trattasse di una sistemazione obiettivamente buona in ogni senso, si esaurì, purtroppo, in modo infausto, nel volgere di un risicato arco di tempo. Con la motivazione di non sopportare il distacco dal mio paesello d’origine, dalla mia famiglia e, soprattutto, da mia madre, vissi, o diedi a intendere di vivere, un’autentica tragedia, per cui, in breve, mio padre fu costretto a ripetere il viaggio ad Anagni e a riportarmi a casa. La mia capricciosa ma inamovibile impuntatura fu presa come un autentico smacco non solo in casa, ma pure presso i parenti e fra gli amici compaesani: si pensi, a undici anni e mezzo, mi trovai appiccicata addosso, addirittura, l’etichetta appellativa di “rovina famiglie” e/o mi vidi piovere sul capo l’osservazione “Il Padreterno dà i biscotti a chi non ha denti per mangiarli”. Ma la storia non finisce qui. Difatti, una volta rientrato a Marittima, il piccolo, criticato “reduce” assunse un’ulteriore rigida posizione, facendo cioè presente, con vigore, che non gli andava di far la brutta figura di comparire, in ritardo rispetto all’inizio delle lezioni, in una classe di Scuola media pubblica, fosse a Maglie o a Tricase.

Di conseguenza, non gli rimase che affidarsi al concittadino maestro delle elementari, Alfredo Quaranta, prendendo a svolgere insieme con lui, ogni pomeriggio, il programma didattico della prima media e sostenendo a Maglie, da privatista, nel successivo giugno, l’esame finale, con esito positivo. La stessa sceneggiata ebbe, purtroppo, a verificarsi in corrispondenza dell’anno scolastico seguente, sebbene io avessi spergiurato che giammai si sarebbe ripetuta la prima infantile rinuncia collegata al convitto. In detta seconda esperienza anagnina, feci in tempo a mandare a quel paese, e anche oltre, l’insegnante di matematica della locale Scuola media. Questi, rivedendomi nella sua 2^ e avendo a mente il mio anticipatissimo abbandono dell’anno precedente, mi chiese dove e come avessi frequentato in alternativa e volle saggiare la mia preparazione con la coppia di domande a bruciapelo “tre per quattro, quanto fa?” e “quattro per tre, quanto fa?”, e, alla mia ripetuta risposta di dodici, fece seguire l’interrogativo trabocchetto scontato “e perché?”.

Da parte mia, sotto agitazione o per un improvviso vuoto di memoria, risposi al secondo problema con un banale “perché è la stessa cosa”, senza minimamente accennare alla regola, men che elementare, della nota proprietà commutativa della moltiplicazione “cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia”. Risate a tutto spiano, se non sghignazzi, dalla bocca del docente, il quale, secondo il sentire infantile, ma non troppo, della vittima, si accaniva su un malcapitato; con l’aggravante, che le sue sfacciate reazioni d’ilarità e di scherno arrivavano immediatamente ad accomunare l’intera scolaresca. Per ciò, non riuscendo a trattenermi, rivolto al professore, io finii con lo sbottare, d’istinto, in un: “Lei è un p….!” (a chiare lettere, secondo Wikipedia, suide addomesticato, che grugnisce). Dopo di che, preso per un braccio dallo stesso autorevole destinatario dell’improperio, verosimilmente colto di sorpresa dalla mia reazione e divenuto paonazzo in volto, mi trovai in un baleno di fronte al preside e, seduta stante, scattò la sospensione, per alcuni giorni, dalle lezioni (poco male, ragionai tra me e me, tanto intendo lasciare questa scuola e tornarmene nel Salento).

***

Finalmente, ci fu da predisporre la frequenza della terza media e, questa volta, niente tergiversazioni su opzioni convittuali ma semplice e diretta iscrizione alla scuola pubblica di Maglie e, guarda caso, nuovamente sezione D e docente di lettere il già citato Francesco Erroi.

Nel complesso, si rivelò del tutto agevole l’esperienza da normale frequentante, con la sola eccezione di talune mie esitazioni, specie all’inizio, nel seguire le lezioni di francese (evidentemente, durante il biennio trascorso in veste di allievo privatista del maestro Alfredo, non avevo assimilato a sufficienza le relative nozioni). Per fortuna, in quel corso della scuola pubblica, c’era un professore molto bravo, anche se dal carattere un tantino particolare, Giuseppe Macrì, il quale, in certo qual modo, mi prese a cuore e, specialmente, mi tenne sotto tiro, giungendo talora – tempi lontani e, ovviamente, agli antipodi rispetto agli attuali – a trascinarmi fino alla lavagna e ad appoggiare lievemente ma ripetutamente la mia fronte sulla relativa lastra nera, sentenziando: “Se non te loimparo” io, il francese, non te lo “impara” neppure Domine Dio”. Devo ammettere che la cura del docente Macrì si rivelò efficace.

***

Ottenuta, poi, con buoni voti di profitto, la licenza di Scuola media, si presentò la necessità di scegliere per le Superiori. In cuor mio, pensavo di seguire l’esempio del mio fratello maggiore e di iscrivermi al ginnasio e, a ruota, al liceo classico, oppure, in subordine, forse volendo emulare il mio insegnante elementare, di andare a frequentare l’Istituto magistrale a Lecce. In concreto, però, giunse a prevalere uno sbocco differente, che, in fondo, accettai con convinzione, nell’ottica di vedere agevolato, con quello specifico diploma, l’inserimento nel mondo del lavoro, la conquista di un impiego. Insomma, la scelta cadde sull’Istituto tecnico commerciale statale, indirizzo amministrativo “Cezzi – De Castro” di Maglie, località dove mi sarei portato, da Marittima, con il pullman delle Sud Est, già sperimentato durante la terza media. E alla “Ragioneria”, così si appellava semplicemente e praticamente detto polo d’istruzione, trovai, fra i compagni di classe, Giorgio Ruggeri, menzionato all’inizio di questa narrazione. Si trattò, da subito, di una pratica diversa e accattivante, che si sviluppava non più fra ragazzini bensì fra adolescenti, con discipline da studiare in gran parte inedite. A oltre sessant’anni di distanza, serbo ancora memoria dei nomi dei frequentanti il corso “B”: Eugenio Agnello (Nociglia), Vito Alfarano (Tricase), Salvatore Baglivo (S. Eufemia di Tricase), Rocco Boccadamo (Marittima), Antonio Brocca (Muro Leccese), Francesco Bruni (Otranto), Giovanni Cioffi (Casarano), Antonio Costa (Maglie), Franco De Donatis (Torrepaduli), Luigi De Pascalis (Martano), Antonio De Santis (Martano), Antonio Di Noia (Uggiano La Chiesa), Luigi Filippi (San Cassiano), Antonio Gerardi (Corigliano d’Otranto), Vincenzo Guarino (Corigliano d’Otranto), Franco Latino (Poggiardo), Vincenzo Laurenti (Otranto), Oliviero Leuzzi, (Botrugno), Fernando Lisi (Miggiano), Giorgio Monteduro (San Cassiano), Giuseppe Monteduro (San Cassiano), Antonio Pastore (Cocumola), Franco Pirelli (Leuca), Giovanni Pisanò (Casarano), Ippazio Pulimeno (Corigliano d’Otranto), Gerardo Rizzo (Alessano), Luigi Rizzo (Otranto), Carmine Romano (Maglie), Giorgio Ruggeri (Uggiano La Chiesa), Luigi Rutigliano (Otranto), Giuseppe Schifano (Andrano), Vittorio Velotti (Melissano), Tommaso Vergari (Botrugno), Filippo Vergari (Montesano Salentino), … Vergine(Corigliano d’Otranto). Dei trentasei appena elencati, per la precisione, non tutti erano presenti nel primo anno, alcuni si aggregarono gradualmente nelle classi successive; due o tre compagni, purtroppo, non riuscirono a conseguire puntualmente il diploma, uno, invece, Filippo Vergari, bravissimo, compì un “salto” nel corso dell’anno scolastico, completando gli studi nel 1959, anziché nel 1960. Ricordo pure i nomi del Corpo docente succedutosi in seno al corso “B” durante l’intero ciclo: Luigi Antonica (inglese), Anna Balena (calligrafia), Paolo Congedo (italiano, 2^ e 3^ classe), Salvatore Errico (italiano, 4^ e 5^ classe), Luigi Ferrante (diritto ed economia politica, 5^ classe), Italo Giuri (ragioneria e tecnica, 5^ classe), Concetta Manna (stenografia), Luigia Manno(italiano, 1^ classe), Don Franco Maruccio (religione), Luigi Paolo Mazzotta(computisteria, ragioneria e tecnica, 2^, 3^ e 4^ classe), Laura Orlando (matematica), Stella Rosa (francese), don Francesco Rotundo (religione), Luigi Serio (diritto ed economia politica, 3^ e 4^ classe), Lucia Turco. (scienze naturali, chimica, geografia economica), Giuseppe Valentini (educazione fisica).

Per quanto riguarda la guida complessiva dell’Istituto, affiancavano il preside, Prof. Mario Duma, il segretario (all’inizio, Salvatore Gualtieri, dopo, rag. Domenico Mele) e l’addetto alla segreteria Giacomino De Donno, col prezioso ausilio dei collaboratori scolastici Nino e Ada.

***

Anche in seno alla nuova realtà scolastica, nel giro di poco tempo, mi trovai coinvolto in qualcosa di imprevisto e imprevedibile, relativamente alle lezioni di lingua francese. Malgrado le prima indicate mie carenze in terza media, che avevano richiesto una cura energica da parte del professore Macrì (lo rivedo, negli occasionali fugaci incontri di primo mattino, in Piazza Capece a Maglie, dove aveva sede la Scuola Media in cui egli era rimasto a insegnare, nell’atto di roteare a lungo la mano e il braccio destro, come per dire “eh, cambiando scuola e con la nuova docente che avete trovato all’Istituto Tecnico, vi è andata proprio bene, fate la pacchia”), agli occhi e al giudizio della professoressa Stella Rosa ebbi subito ad apparire come un allievo non bravo ma bravissimo, un esempio; sia nelle interrogazioni, come nei compiti scritti, fui gratificato con una serie di nove e dieci.

In aggiunta a ciò, l’insegnante, a un dato momento, mentre teneva le sue lezioni nella seconda e nella terza “B”, prese l’abitudine di mandarmi a chiamare tramite il bidello Nino, in modo da far vedere agli allievi di quelle classi, chiaramente più grandi di età, con me direttamente presente e fungente da “campione”, come si dovesse studiare e dimostrare di sapere la sua materia. Per me furono, però, circostanze, piuttosto che gratificanti, di disagio e di “vergogna”, anche perché, durante i miei “sconfinamenti” nei corsi superiori, c’era sempre qualcuno che, sottovoce, mi indirizzava l’invito a ritornarmene nella mia classe, invece di prestarmi al gioco della docente. In particolare, al cospetto di studenti/giovanotti o quasi, il mio disagio cresceva durante l’inverno, quando, quattordicenne o poco più, esibivo pantaloni alla zuava e, ai piedi, calzettoni di lana fatti a mano e sandali semiaperti, per via dei fastidiosi geloni che, pur mordendo il freddo, non mi consentivano di infilarmi scarpe chiuse, chiaramente più adatte alla stagione. Tuttavia, come consolazione, negli scrutini finali della prima superiore, sulla pagella, accanto alla materia “Lingua francese”, vidi campeggiare un bel nove.

***

Provo ora a dedicare veloci note aggiuntive, tra il serio e il faceto, su determinati professori.

Luigi Paolo Mazzotta, faceva su e giù, dalla sua residenza a Maglie, alla guida di un’autovettura Fiat 600. Come insegnante, non godeva di eccelsa fama, nondimeno era buono, gioviale e tollerante; di tanto in tanto, aduso a intercalare alla lingua italiana accezioni o frasi dialettali. Il primo compito che ci assegnò in seconda classe, materia, la computisteria, verteva sulla cosiddetta regola “catenaria”. Alle 8, ora di inizio delle lezioni, si era limitato a dettare la traccia dell’esercizio, recandosi, quindi, in un’altra classe in cui aveva lezione e lasciando a vigilare su di noi il collega di una differente disciplina. Ritornato alle 9, compì una rapida ricognizione fra i banchi e si accorse che nessuno aveva iniziato a svolgere il compito, forse perché le sue spiegazioni non erano state sufficientemente chiare alla scolaresca. Al che, si avvicinò a una parete dell’aula e proruppe in un “povero me, non hanno capito niente!”, e, a seguire, ritirò tutti i fogli e annullò la prova. Qualche tempo dopo, si ripetette un caso similare. Io pur cercando di studiare e approfondire per conto mio quella materia, a una verifica presi, come voto, 4, l’unico in tutta la mia carriera scolastica. Rimasi, di conseguenza, avvilito, per alcuni giorni “odiai” il professor Mazzotta, un mattino, incrociandolo casualmente per strada, arrivai addirittura a rinfacciargli ostentatamente, con la mano destra aperta su quattro dita, il brutto voto (per quel gesto, il giorno successivo, il docente mi rimbrottò severamente davanti a tutti i compagni). Negli anni seguenti, mi venne l’idea di aiutarmi con un altro libro, in aggiunta a quello di testo e, in tal modo, riuscii a trovarmi meglio con il docente in questione; quasi quasi, senza che me ne avvedessi, intervenne una sorta di miracolo. A comprova, eravamo in quarta, un giorno fui chiamato alla cattedra per un’interrogazione. “Parlami del conto lavorazione nelle imprese industriali “, mi invitò il professore. All’inizio un po’ timidamente, io provai ad argomentare e di lì a poco, inaspettatamente, notai che il docente, il capo quasi appoggiato sul piano della cattedra, se ne stava rivolto verso di me con lo sguardo fisso, con la bocca semiaperta e mi osservava concentrato e immobile. Mentre io seguitavo a esporre le nozioni che avevo assimilato, a un certo momento, il prof. Mazzotta si girò di scatto verso i compagni che seguivano la mia verifica dai banchi, ingiungendo loro: “State attenti, che parla il professore!”. Furono risate, come di fronte a una comica. Sia come sia, ottenni un buon voto. Dicevo sopra che, in certi frangenti, il prof. Mazzotta indulgeva ad atteggiamenti o a discorsi “alla buona”. Ad esempio, una volta, rivolto a Eugenio Agnello che stava chiacchierando in classe con un compagno, se ne usci con:” Agnello, la vuoi finire o no? Vedi che, se non la smetti, ti appendo”. Naturalmente, pure in questa occasione, ilarità generale, avendo, il prof., configurato l’immagine di un pacifico ovino macellato, appeso a un gancio e pendente sull’uscio di un negozio di carni. In un’altra circostanza, chiamando in causa il compagno Antonio Di Noia: “Noia (n.d.a., cognome in sintesi, al posto di Di Noia), perché ridi?”. Risposta del ragazzo: “Professore, è Agnello che mi fa ridere”. Replica conclusiva: “E tu, non ti fare ridere”. In quarta classe, il sabato, avevamo lezione, con il prof. Mazzotta, dalle 12 alle 13. Or bene, con l’intraprendenza da ragazzi ormai grandicelli, pensammo di prendere la licenza, approfittando dell’intervallo per il cambio di insegnante a mezzogiorno, di svignarcela, prima che il docente Mazzotta giungesse da noi. Era brevissimo il percorso fra la nostra aula e il portone l’uscita della scuola, anche se si doveva passare davanti alla porta della presidenza. Partendo da quell’idea, ponemmo ripetutamente in atto l’alleggerimento dell’orario didattico del sabato, anche se capitava di sentire dal prof. Mazzotta, in arrivo, “dove andate?” e dal preside “siete impazziti, che fate, rientrate in classe”. Tutto inutile, la fiumana della quarta “B” era ormai, in maggioranza, per strada. In fondo, il nostro pensiero autoassolutorio era che rendevamo un favore all’insegnante, consentendogli di ritornare nella sua residenza, in anticipo rispetto al previsto. Saltando dagli anni Cinquanta del secolo scorso al 2000 circa, ho avuto modo di contattare e rivedere a Lecce il professor Luigi Paolo Mazzotta, il quale si è ricordato subito del suo allievo, Boccadamo da Marittima (“eri uno bravo, vero?”, mi ha chiesto al telefono). Su suo invito ci siamo incontrati al Bar Manhattan, consumando un’aranciata amara in due e, infine, mi ha brevemente accolto nella sua abitazione nelle vicinanze. Non molto tempo fa, ho saputo che il professor Mazzotta se n’è andato, ultranovantenne.

La professoressa di matematica, Laura Orlando, era molto brava e preparata, come persona, secondo il mio giudizio di adolescente, lasciava, invece, un po’ a desiderare, andava per simpatia e io, nonostante me la cavassi bene anche nella sua disciplina, non rientravo nel novero degli allievi prediletti. Giovane, nubile, portava spessissime lenti. Quando dovevamo svolgere compiti in classe, la sua prima azione era di farmi lasciare il banco dove ero seduto abitualmente insieme a un compagno e di invitarmi a sedere, a solo, in un banchetto accanto alla cattedra. Quindi, dettava due tracce: una, per gli allievi che si trovavano nella parte destra di ciascuna fila di banchi e l’altra, per i restanti che avevano posto nella parte sinistra. Io, anche se l’insegnante mi diceva di svolgere una ben determinata prova, mi annotavo tutte e due le tracce, le valutavo e svolgevo quella che mi sembrava più facile. Il trucchetto funzionava quasi sempre. Solamente in un caso, si scoprirono gli altarini, allorquando la prova “tosta”, che sarebbe toccata anche a me, non fu svolta da alcuno della scolaresca: la docente trasse spunto da ciò, per fare mente locale, dopo di che mi rinfacciò, rimproverandomi, il giochetto posto in atto e annullò la prova.

In quarta, studiavamo la matematica finanziaria e attuariale, un vero e proprio calvario di formule da imparare e tenere a memoria. Riflettendo sulla limitazione visiva della Orlando, escogitai di copiare, con una matita o lapis, sul nero della lavagna, ovviamente in ore vuote o favorevoli, la maggior parte delle formule in questione, che la prof., anche mentre spiegava avvicinandosi alla lavagna, non riusciva a notare. Al contrario, noi allievi, quando eravamo interrogati, alla richiesta di riferire la formula A o B dicevamo: “Prof., posso scriverla alla lavagna?”. Così, spesso riuscivamo ad aiutarci. La trovata funzionò per lungo tempo.

Il professore di italiano Paolo Congedo (seconda e terza classe) era un docente eccezionale, di poche parole, ma di profondissima cultura e vasta esperienza. Durante le spiegazioni, lo seguivamo in assoluto, quasi religioso silenzio e con molta attenzione. Severo ma anche giusto, disponibile nelle interrogazioni e nelle verifiche in genere. In quarta e in quinta, arrivò, al suo posto, il professor Salvatore Errico, il quale, inizialmente, sembrò soffrire un po’ per la difficile successione; la stessa scolaresca, ovviamente, accuso la differenza e, tuttavia, non tardò a adattarsi e a integrarsi col nuovo docente, peraltro persona dal tratto ottimo e alla mano.

L’avvocato Luigi Ferrante, di ottima e nobile famiglia, docente di diritto ed economia in quinta classe, era una pasta d’uomo, un signore; ci lasciava un po’ fare e noi, purtroppo, lo ripagavamo con qualche intemperanza. Per citare, mentre lui parlava, accendevamo in classe una radiolina e, quando la stessa emetteva i classici fischi che precedono l’inizio di un programma, non poteva non accorgersi del suono, che noi sostenevamo, impunemente, dovesse attribuirsi al cinguettio degli uccellini sugli alberi d’arancio del giardino confinante con la scuola. Ancora, da poco avevo scelto di andare a sedermi all’ultimo banco accanto a Giorgio Monteduro, detto “palo” perché di altezza prossima ai due metri, a un certo punto proposi, ai vicini di banco, l’idea di vivacizzare le lezioni del professor Ferrante.

Approfittando dell’esistenza di una stufa per riscaldamento che, abitualmente, si trovava in fondo all’aula, proposi di cucinare qualcosa, appunto, durante l’ora del professore Ferrante, ad esempio due uova. Dalle parole ai fatti: chi portò una padellina, chi olio e sale, chi, secondo ricetta, un paio di uova fresche. Mentre il professore spiegava, la stufa fu inclinata con l’ampio piatto in posizione orizzontale, la padellina con l’olio posata sulla fiamma; al cadere sull’olio bollente, le uova emisero il classico sfrigolio, il professore sentì lo strano “rumore”, agitandosi e chiedendo di colpo “che cosa stesse succedendo laggiù”. Gli improvvidi cucinieri provarono rapidamente a smontare e disattivare l’apparato, ma, ovviamente, l’avvocato Ferrante si accorse di tutto, senza però farne una tragedia. Diversamente, il mattino seguente, prima dell’inizio delle lezioni, sulla Quinta “B”, si abbattette la violenta ramanzina del bidello Nino, il quale, imprecando all’indirizzo dell’intera scolaresca per la malefatta, si lamentò, specialmente, di aver dovuto lavorare a lungo per ripulire il pavimento dai residui dell’olio e delle uova rimaste non cotte.

Dopo il triennio di docenza del professor Luigi Paolo Mazzotta, in quinta, per ragioneria e tecnica, ci arrivò il professore Italo Giuri, giovane, piccolo di statura, capelli color biondo rossiccio, occhi verdi, accompagnato da nomea di ottimo insegnante, ma, nello stesso tempo, in barba all’età, di persona austera, molto esigente e severa. Dire che, noi del corso “B”, quanto a bagaglio di preparazione pregressa, non eravamo messi propriamente bene. Iniziò l’esperienza con il professor Giuri, i fatti confermarono subito la presentazione iniziale, in occasione delle verifiche, come voto, si affacciavano anche alcuni due o tre; così, un giorno, era toccato al compagno Vito Alfarano, il quale, rimasto ovviamente male per l’esito della prova, se ne ritornò al banco, seminando, vocalmente, sequenze di imprecazioni e di minacce indirizzate al prof. Giuri. Improvvisamente, si presentò una scena originale e quasi patetica, il docente, eretto sulla pedana della cattedra, con le braccia aperte a configurare una sorta di Santa Croce, ad esclamare: “Non ho paura delle minacce, anzi sono pronto al sacrificio”.

Intorno a Natale 1959, si sparse la voce che il prof. Giuri sarebbe stato il componente interno nella commissione degli esami di maturità. A tale notizia, noi tutti restammo sconcertati e commentavamo “se sarà nominato lui, anziché aiutarci, con la sua severità ci danneggerà se non, addirittura, rovinerà”. In quel periodo, io, nel pomeriggio, studiavo insieme con Franco Pirelli e Franco De Donatis, nell’abitazione presa in affitto a Maglie, per tutto il periodo dell’anno scolastico, dai genitori del secondo compagno di cui sopra. Di fronte alla prospettiva Giuri agli esami di Stato, l’anzidetto terzetto di interessati, pensò a un’iniziativa: scrivere al professore una lettera in bianco, consigliandogli di non accettare, per il suo bene, l’incarico di membro interno. Detto fatto, la missiva fu vergata, con uso, non solamente della penna ma pure di guanti per non lasciare tracce sul foglio e sulla busta, e spedita. Dopo un paio di giorni, mentre stavamo svolgendo in classe un compito proprio col professor Giuri, bussò alla porta dell’aula il bidello Nino: “Dottore, c’è una lettera per lei”. Il destinatario, stupito, prese in mano il plico e, pur seguitando a sorvegliare, al solito, fra i banchi, onde controllare che qualcuno non copiasse dai compagni, lo dischiuse e diede velocemente una scorsa al contenuto. “Molto bene!”, fu la sua ostentata osservazione. Intanto, io e i coautori dell’operazione, ce ne stavamo a capo chino sul banco. Nei giorni successivi, tuttavia, ritornammo arditi, domandando, al docente, se fossero vere le voci sull’argomento. Ma lui replicò con forza: “Non è niente vero, sono notizie destituite di ogni fondamento”. E continuando: “Poi, voi stessi, forse, non mi vorreste come membro interno” e, puntando il dito e lo sguardo verso di me:” Proprio lei, probabilmente, non mi vorrebbe”. Era duro mantenere la compostezza e far finta di niente. Di fatto, il prof. Giuri fu designato come commissario interno alle prove di maturità. Nell’ultimo giorno di lezioni, io trascorsi la mattinata in segreteria, per copiarmi in chiaro i programmi di tutte le materie. Dopo qualche ora, nel cortile della scuola, incrociai il prof. Giuri con molti registri di classe sottobraccio, che mi chiese dove fossi stato invece di essere presente in classe, aggiungendo quindi: “Si è persa un’occasione importante e irripetibile, nonostante le difficoltà e i contrasti relazionali nel corso dell’anno, oggi, nella Quinta “B”, c’è stata un’assemblea immemorabile, commossa, abbiamo tutti pianto per il commiato”. E, dopo, mi invitò a seguirlo in un’aula, per dettargli le assenze degli alunni da riportarsi nella pagina degli scrutini di fine anno.

In realtà, in mia presenza, a dimostrazione inaspettata della fiducia che riponeva in me, egli fece gli scrutini: di promozione o meno per le classi intermedie e ai fini dell’ammissione o meno agli esami di Stato, per la mia classe Quinta “B”. Giunto al mio nome, disse: “La ammetto con sette e sette (in ragioneria e in tecnica), ma guai a lei se, agli esami, non riporterà un voto migliore”. Giunsero le prove conclusive, scritte e orali; in occasione delle seconde, mi toccò un’interrogazione di circa un’ora, fortunatamente risposi a tutti, notando, man mano, come sul volto del mio insegnante andassero vieppiù a stamparsi le impronte di una grande soddisfazione.

Dopo una decina di giorni, fui informato che erano usciti i “quadri”, lo dissi immediatamente a mio padre e, con un’autovettura presa a noleggio, ci recammo insieme a Maglie. All’ingresso dell’Istituto, prima ancora di avvicinarci ai fogli con i risultati degli esami, incontrammo il segretario Mimì Mele, il quale, con un sorriso, mi fece: “Hai preso voti tutti tondi, complimenti”, volendo dire otto e nove. Così lessi, in effetti, sui “quadri”; in particolare, nelle materie ragioneria e tecnica del Prof. Giuri, avevo riportato un bellissimo nove. I miei, erano i migliori voti di tutto l’Istituto e, come seppi dopo, si collocavano ai più alti livelli pure su scala provinciale.

Come avvenuto con riferimento al prof. Luigi Paolo Mazzotta, intorno al 2000, ho chiesto e ottenuto di rivedere anche il professor Italo Giuri. Commovente il clima dell’accoglienza, contraddistinto da un particolare; quando gli ricordai che agli esami di maturità mi aveva messo nove in entrambe le sue materie, il docente rimase allibito e chiamò immediatamente la moglie, già sua allieva, dicendole: “Senti, questo signore mi sta rammentando che, agli esami di Stato, gli ho dato 9 nelle mie due materie” e la consorte:” Sembra proprio impossibile, già che, quando tu assegnavi un sei o un sei e mezzo, si era proprio al massimo”.

Avviandomi alla conclusione, non posso non dedicare una serie di piccoli dettagli o particolari ai miei cari compagni delle Superiori.

Il già menzionato Vito Alfarano aveva un amico straordinario, quasi un gemello, Salvatore Baglivo, prendevano insieme, da una vita, il treno Tricase – Maglie e viceversa, si scorgevano ovunque e sempre insieme, appariva nitido e inequivocabile che si volevano molto bene, erano affiatati, guai a parlare, all’uno, male dell’altro o viceversa: anche se, spesso, Alfarano sovrastava il secondo con iniziative, diciamo così, vivaci. Era solito, Totò Baglivo, dotarsi di quaderni di grosso formato, se non che, nel giro di pochi giorni, gli stessi erano ridotti alla misura più minuscola, del costo di cinque o dieci lire a pezzo, in quanto Vito glieli sfogliava di nascosto; beninteso, sfogliava, nel senso che gli strappava le pagine per utilizzarle lui. La vittima si lagnava di ciò, ma solo per un attimo.

Alfarano era il soggetto che serbava gelosamente, nel portamonete, un foglietto con la brutta copia di un tema assegnatogli e svolto alle Elementari, “La mia mamma”.

Non avendo moltissima voglia di applicarsi nello studio, egli, al fine di aiutarsi, soleva, durante tutto il corso di studi, comprese le Superiori, copiare una parte di quell’antico componimento, in tutti i compiti che era chiamato a svolgere, qualsivoglia fosse la traccia e l’argomento. Detta pratica di Alfarano era nota agli insegnanti di lettere di mezza Terra d’Otranto.

Negli ultimi mesi scolastici della quinta classe, io, anziché restarmene in pensione presso una famiglia a Maglie, decisi di ritornare a fare il pendolare, in treno. Venuto a conoscenza della novità, Alfarano mi diffido dal comprare l’abbonamento con le Ferrovie Sud Est, dicendomi: “Tu chiederai i soldi ai tuoi genitori, ma gli userai, di fatto, esclusivamente per l’acquisto di sigarette, così fumiamo alla grande; intanto, durante i tragitti in treno, sarai sotto la nostra protezione, non ti preoccupare, già che conosciamo tutti i controllori delle Sud Est, anzi siamo loro amici”.

Adesso, sento di dover indirizzare un pensiero ad Antonio Brocca, detto, bonariamente, “la morte”, a causa del suo viso particolarmente e perennemente pallido. Un certo giorno, mi frullò l’estro di scagliare verso di lui il cancellino, intriso di gesso, che si adoperava alla lavagna, lo raggiunsi proprio sul viso, al che, il poveretto, dopo essersi accorto che ero stato io, corse lesto in direzione della presidenza e ritornò nella nostra classe insieme con il capo dell’Istituto, il quale mi intimò: “Vai immediatamente fuori!” e io, ubbidendo, me ne andai nel giardino/palestra della scuola.

Del gruppo di otrantini, il più benvoluto dall’intera scolaresca era Luigi Rizzo, i cui genitori avevano un negozio di generi alimentari, cosicché, Gigi, arrivava ogni giorno in classe con un bel panino imbottito, che, cuore alla mano e generosità grande, per l’intero anno scolastico, non vi fu una volta che lo mangiò da solo.

Una peculiarità, relativamente ai due martanesi Luigi De Pascalis e Antonio De Santis: durante le interrogazioni, provavano, talora riuscendo, ad aiutarsi l’un l’altro, mediante suggerimenti in “grico”.

Non me ne vogliano i restanti compagni, se non li rievoco, nelle presenti righe, uno per uno, ma tengo a dire che, di tutti gli iscritti al corso “B”., singolarmente e distintamente, serbo un vivido ricordo nella mia mente e dentro l’animo. E provo, ancora adesso, sentimenti di spiccata, sincera ammirazione per quanti di loro frequentavano l’Istituto sottoponendosi, quotidianamente, a una notevole fatica, per coprire, in bicicletta, il percorso dai rispettivi paesi a Maglie.

Una volta esauritasi la mia attività lavorativa e rientrato nel Salento, ho avuto agio di rivedere di persona alcuni compagni, invero pochi e ciò mi dispiace: Franco Pirelli, Franco De Donatis, Luigi De Pascalis, Antonio De Santis, Claudio Calzolaro, Giovanni Cioffi  e Fernando Lisi.

Un ricordo speciale e commosso, infine, desidero innalzare a Salvatore Baglivo, il quale, l’ho saputo dopo, una ventina d’anni fa, ancora giovane, è stato purtroppo coinvolto, rimanendone vittima, in un incidente stradale sulla via che da Tricase conduce a Tricase Porto.

***

La mia primavera scolastica, specialmente il quinquennio delle Superiori, mi ha dato molto, formandomi e educandomi all’impegno in senso generale e alla ricerca e coltivazione di buoni rapporti con gli altri, consentendomi, in definitiva, di crescere. Sono, in particolare, fiero per i cordiali, amichevoli e quasi fraterni legami intrattenuti costantemente con tutti i miei compagni, nessuno escluso, e anche per la positiva interazione avuta con il Corpo docente e il restante personale dell’Istituto.

Si è trattato, non soltanto di una scuola didattica in senso strettamente culturale ma, pure, di una preziosa e insostituibile palestra di vita, in cui ho cercato di svolgere con umiltà e, insieme, con intensità, la mia parte, trovandomi sempre bene: dare agli altri, ma anche prendere dalle loro doti positive e dal loro buon esempio.

Da ultimo, ma non perché rivesta minore importanza, confesso che mi sono anche sanamente divertito.

Rocco Boccadamo

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Certezze ed incertezze del presente

Lo spettro della guerra, malavita, femminicidi, violenza dilagante nel mondo adolescenziale e giovanile. E il Salento? Terra di anziani residenti o fugaci vacanzieri…

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di Hervé Cavallera

di Hervé Cavallera

La Pasqua da poco trascorsa dovrebbe aver ricordato ai Cristiani che essa, per il tramite della passione, morte e resurrezione di Gesù, è l’invito al passaggio ad una vita migliore.

Le feste del Cristianesimo, infatti, possono essere considerate come una sollecitazione per un futuro che sia, per i singoli e per la collettività, più buono e sereno rispetto al passato.

Ma l’immagine del presente non è così.

In campo internazionale permangono almeno due conflitti e i rischi che i campi di battaglia si allarghino non sono da sottovalutare.

E non è un problema dappoco.

Poi, per quanto riguarda l’Italia (ma il fenomeno non è solo italiano) si può constatare un aumento della violenza.

E non ci si riferisce solo ai casi più eclatanti, ossia ai delitti legati al mondo della malavita e alla crisi delle relazioni sentimentali (basti ricordare i femminicidi).

Ci si riferisce particolarmente alla violenza diffusa nel mondo adolescenziale e giovanile con i tumulti nelle università volti ad impedire la libertà di parola a conferenzieri non graditi, alle dimostrazioni pacifiste che generano saccheggi e vandalismi di vario genere, alle conflittualità che serpeggiano in certe scuole in una contrapposizione tra docenti ed allievi, con la partecipazione talvolta dei genitori.

Si ha l’impressione di trovarci in un mondo in cui non si riesce più a controllare gli impulsi.

Così accade che le frustrazioni, che sicuramente la maggior parte di noi ha pure conosciuto nel corso della propria esistenza, non vengano superate rafforzando il carattere e abituando a saper affrontare le difficoltà, ma producano comportamenti aggressivi che si propagano con facilità.

Ciò significa che gli adulti, i genitori in particolar modo, devono ben essere attenti oggi più che mai alle dinamiche dell’età evolutiva dei giovani.

Per fortuna sembrerebbe un fenomeno che non riguarda in modo preoccupante il nostro Salento.

Non che manchino i fatti di cronaca nera, ma fenomeni di scontri di piazza da parte di minorenni sono assai pochi.

E qui allora emerge un’altra considerazione: quello dello spopolamento.

Le nascite sono da tempo in netto calo nella Penisola.

Secondo i dati dell’ISTAT in Italia nascono 6 bambini ogni mille abitanti.

Nel Salento al calo demografico si aggiunge poi il fatto che molti giovani compiono gli studi universitari in altre regioni d’Italia e non tornano più nel paese nativo.

Certo, vi sono anche coloro che tornano e con coraggio, come si è scritto su questo giornale, ma sono pochi.

Il Salento diventa la terra di anziani residenti o di fugaci vacanzieri.

E allora l’invito alla gioia che proviene dal suono delle campane pasquali si spegne in una triste rassegna.

Conflitti sempre più minacciosi tanto da spingere qualcuno a sostenere il ritorno alla leva obbligatoria, sviluppo della criminalità organizzata, violenze e tragedie domestiche, violenza giovanile, fragilità nell’affrontare le difficoltà connesse al quotidiano, spopolamento, stagnazione produttiva…

Occorre precisare che non si nega che esistano casi positivi, anzi di eccellenza nella imprenditoria, nei giovani, nella vita coniugale e così via, ma l’ombra del negativo è sempre più visibile e preoccupante.

LA COMUNICAZIONE DELL’EFFIMERO

Vi è poi la sensazione di una crescita dell’individua- lismo accentuato dai social, dalla facilità di esprimere pareri su tutto e su tutti.

Al tempo stesso la comunicazione digitale isola fisicamente l’utente pur avendo egli un contatto online con centinaia se non migliaia di persone.

È la comunicazione dell’effimero, mentre si continua a rimanere soli.

Come diceva l’antico filosofo, l’uomo è un animale sociale; ha bisogno di vivere concretamente, fisicamente col prossimo, non di limitarsi a parole diffuse con mezzi artificiali.

Ed è questo l’aspetto che è il lascito ideale delle recenti celebrazioni pasquali: quello di tornare ad essere una comunità.

Una comunità di persone che si incontrano e dialogano ed elaborano progetti che permettano una crescita economica e spirituale.

Tutto questo richiede buona volontà e competenza, richiede il mettere da parte l’attrazione per il proprio tornaconto, per il proprio particulare come diceva Guicciardini.

È un compito che devono tornare ad assumere quelle istituzioni ad esso preposte quali la famiglia e la scuola.

In un momento storico in cui i legami familiari diventano sempre più fluidi, bisogna che la scuola diventi davvero un centro di formazione di responsabilità oltre che di conoscenze e competenze.

Un futuro migliore è affidato da sempre ad una buona educazione e di ciò dobbiamo tornare a prendere consapevolezza.

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