Approfondimenti
Leuca e la ‘nuova’ Colonia Scarciglia che mette tutti d’accordo
Presso il Circolo della Vela di Santa Maria di Leuca, è stato presentato ufficialmente il progetto di riqualificazione della Colonia Scarciglia vincitore del bando di gara emanato dall’amministrazione di Castrignano del Capo alla fine del 2022.
IL FUTURO DI LEUCA
Il presidente dello Yacht Club, Giovanni Arditi di Castelvetere, ha posto l’attenzione sul fatto che il progetto di riqualificazione della Colonia Scarciglia rappresenta il futuro di Leuca, allo stesso modo in cui lo Yacht Club Leuca, le cui radici affondando nel lontano 1878, ne rappresenta la storia.
OCCASIONE DI RILANCIO
Per il sindaco di Castrignano del Capo, Francesco Petracca, rappresenta un’occasione di rilancio per il territorio e si inserisce in un programma di rigenerazione più ampio: «La Colonia Scarciglia, così come appare oggi, non è un buon biglietto da visita per Leuca. Appena ho visto il progetto me ne sono subito innamorato: non è impattante; è rispettoso dell’ambiente; rinuncia a 700 mq di volumi; comporta una riqualificazione dell’intero promontorio di Punta Meliso, anche attraverso un rimboscamento; prevede una serie di collegamenti con la Via Francigena e con la Via Crucis, rivolgendosi anche al turismo religioso e dei cammini; lascia aperto al pubblico il percorso che porta a Punta Meliso e, infine, è un progetto che dall’esterno si vede poco, si confonde con la roccia e la macchia mediterranea».
DA APPLAUSI
L’assessora regionale Anna Grazia Maraschio ha sottolineato come il progetto coniughi «tutte le componenti essenziali negli interventi di riqualificazione» ed ha raccontato come «quando fu presentato per la prima volta ai funzionari del paesaggio e dell’urbanistica della Regione Puglia, alla fine ci furono un minuto di silenzio e un applauso».
Don Gianni Leo (Rettore della Basilica di Santa Maria De Finibus Terrae), intervenuto per conto del Vescovo di Ugento – Santa Maria di Leuca, ha ricordato come Mons. Vito Angiuli sia «stato tra i primi a visionare questo progetto e ad auspicarne la realizzazione».
RESTUTUISCE BELLEZZA
L’imprenditore Ivan De Masi ha posto l’accento sulla valenza pubblica: «Il progetto risponde ad un’esigenza del Comune di Castrignano del Capo che prevede la riqualificazione urbana di un’area più vasta. Restituisce bellezza e fa convivere pubblico e privato. Una parte del progetto è destinata, infatti, a rimanere pubblica e sarà la sede di una Fondazione Culturale di cui si spera facciano parte le istituzioni: l’Università del Salento, la Diocesi ed i privati che a vario titolo operano sul territorio».
LUOGO UNICO
L’altro imprenditore in rappresentanza dell’azienda promotrice Alboran Real Estate, Pasquale Amabile si è soffermato sugli aspetti turistico-ricettivi del progetto: «Nell’immaginario collettivo dell’Italia, Leuca è percepita come un luogo unico, al pari di Capri, ma può e deve ancora crescere da molti punti di vista. L’auspicio è che possa farlo anche grazie a questo progetto, che prevede la creazione di una struttura ricettiva di alto livello, finalizzata a qualificare ancora di più l’offerta turistica in Salento».
PAESAGGIO PROTAGONISTA
L’architetto Toti Semerano, infine, ha spiegato la filosofia di fondo del progetto: «L’attuale fronte della Colonia Scarciglia è un detrattore ambientale, nonostante la sua storia e le ragioni straordinarie per cui è stato realizzato. Il progetto si propone di lasciare solo il piano terra dell’immobile e di rivelare la collina alle sue spalle, che è stata cancellata e non è più percepibile. Il vero protagonista è il paesaggio. La caratteristica essenziale del progetto consiste nella sua doppia natura: da un lato la Fondazione Culturale aperta al pubblico, che sarà il motore della nuova Colonia Scarciglia, dall’altro la struttura ricettiva e gli annessi servizi (bar, ristorante, piscina, spa ecc.) per gli ospiti».
IL FUTURO DIRETTORE
Sulla eliminazione della facciata e, più in generale, sulla riduzione del volume esistente, si è soffermato anche Mario Carparelli, futuro Direttore della Fondazione: «Quando ho visto per la prima volta il progetto ho pensato a Michelangelo, che si definiva artista “del levare” e non “del mettere”, perché per lui il blocco di marmo andava scolpito affinché potesse liberare la statua che vi era imprigionata dentro. Esattamente come Michelangelo, Toti Semerano con il suo progetto non aggiunge ma toglie, liberando la bellezza offuscata dall’attuale struttura».
SINTESI DEL PROGETTO
Il progetto, che si è aggiudicato il Premio The Plan Award 2021 per la categoria paesaggio promosso dalla rivista di architettura e design The Plan, invece di utilizzare il volume esistente, prevede di ridurlo drasticamente facendo riapparire la collina ora del tutto celata alla vista: un intervento dove l’architettura dialoga, si integra, si fonda col paesaggio.
Dell’imponente volume della Colonia Scarciglia viene utilizzato esclusivamente il piano terreno, viene recuperato invece il volume esistente dell’ex scuola, destinandolo a residenza turistica con annessi servizi.
La parte rimanente del piano terreno, opportunamente ristrutturata, resta nella disponibilità pubblica e viene recuperata per dare sede in futuro a una costituenda Fondazione Culturale.
Un unico elemento svetta nel paesaggio recuperato: una Torre di grande valore simbolico, la cui altezza è la memoria della dimensione dell’ex colonia, al cui attuale volume si sceglie di rinunciare.
La Torre sarà un segno identificativo del paesaggio costiero salentino, ma anche la Porta di accesso alla collina sovrastante, che si vuole rendere accessibile non solo come passeggiata, ma anche estendendo, attraverso un restauro botanico, la parte alberata così da formare un bosco rigenerativo dell’intero costone.
Gli appositi percorsi serviranno a raggiungere da Leuca il Santuario De Finibus Terrae e avranno pendenze adeguate, in quanto progettate con il fine di eliminare ogni barriera architettonica e dare comodo accesso alla terrazza che si sviluppa sopra l’immobile destinato alla sede della Fondazione.
Questo grande spazio diventerà una Arena cinema all’aperto e sarà utilizzabile, oltre che per proiezioni e rassegne cinematografiche, anche per ogni altra manifestazione culturale.
Rendering Colonia Scarciglia-55
UN PO’ DI STORIA, UNA VOLTA LA COLONIA ERA COSì….
L’attuale progetto di riqualificazione della vecchia Colonia Scarciglia, da tempo abbandonata, fa riemergere ricordi di un passato ormai svanito, divenuto storia.
Per tutto l’Ottocento non pochi erano, nella penisola italiana, i bambini poveri ed esposti a malattie. Pertanto varie associazioni filantropiche e religiose decisero di ospitarli, durante la calura estiva, in degli edifici detti colonie marine (o ospizi).
La più antica colonia pare sia quella aperta a dei bambini di strada da parte dell’Ospedale di Lucca a Viareggio nel 1822. Altri ospizi con analoghi compiti sorsero in zone montane.La loro finalità non era solo ricreativa, ma soprattutto sanatoriale, in particolar modo per piccoli malati di tubercolosi e di scrofolosi.
Il fenomeno della presenza di tali malattie si era accentuato con l’urbanizzazione, la quale aveva generato ulteriori problemi igienici nei quartieri popolari, dove molte volte mancava l’acqua e carenti erano i servizi igienici.
Né la situazione igienica era più rosea nei tanti medi e piccoli Comuni italiani. La prima guerra mondiale accrebbe ancor di più il disagio igienico ed economico, con la diffusione di malattie come la sifilide, il tracoma e il tifo, oltre che la tubercolosi.
Il fascismo, all’interno della sua visione dello Stato totalitario, affrontò risolutamente il problema della organizzazione di massa della gioventù e dell’igiene sociale potenziando le colonie estive, montane e marine e, dal 1926, la loro gestione fu affidata alle locali federazioni del Partito Nazionale Fascista.
Per quanto riguarda il basso Salento orientale, nel 1928 fu aperta a Leuca la Colonia “Luigi Scarciglia” e un’altra, denominata Colonia Trieste, ai Laghi Alimini (Otranto). Il tutto fu poi, con gli anni Trenta, gestito dall’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) e dall’Opera Nazionale Balilla (ONB). Nel 1937 la cura delle colonie fu affidata alla Gioventù Italiana del Littorio (GIL).
Alle colonie potevano accedere – così si legge in un regolamento del 1939 – bambini provenienti da famiglie bisognose, dando la precedenza agli orfani di caduti di guerra e ai figli di mutilati e di invalidi per la grande guerra.
L’età dei frequentanti andava dai 6 ai 13 anni. Dalle fonti ufficiali risulta un totale di 568.680 assistiti nel 1935 e 806.964 durante l’estate del 1939.
Il soggiorno durava circa un mese, secondo un piano giornaliero di attività stabilito a livello nazionale, in cui non mancava il carattere patriottico secondo il costume del tempo.
Con la nascita della Repubblica Italiana le colonie estive hanno poi assunto un carattere più vacanziero oltre che formativo e sanitario, e il patrimonio immobiliare delle colonie è stato affidato prima alle province e regioni e poi, negli anni ’70, agli enti locali.
Soprattutto negli anni anteriori al boom economico, le colonie estive rappresentavano una mèta ambita per tanti bambini, anche se non sempre facile da raggiungere. Le auto private negli anni ’50 non erano molte, sì che i bambini, come ben ricordo, potevano ancora giocare per strada; il tutto con la vigilanza, discreta ma oculata, di madri e parenti anziani.
Né erano adeguati (e non lo sono tuttora) i mezzi pubblici per lo spostamento nei vari paesi del Capo di Leuca, sì che andare alla Colonia Scarciglia (e risiedervi) rappresentava allora un’autentica avventura e non sempre le famiglie, per privata cautela, erano disposte ad affidarvi i loro figli. Il distacco da casa non era sentimentalmente ben vissuto dai genitori.
Accettato era invece lo spostarsi in gruppo, in modo da essere sicuri di quanto potesse accadere ai piccoli. In un momento storico in cui le risorse economiche erano assai ristrette, i villeggianti nelle marine appartenevano di solito al ceto medio-alto. Essendo inoltre i nostri paesi distanti dal mare pochi chilometri, i più solevano recarsi al mare per il tramite della corriera che in vari Comuni collegava giornalmente il centro urbano con la marina.
Per tale motivo, negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, la frequenza della Colonia era considera propria delle classi sociali meno abbienti e d’altra parte non sempre i Comuni – riferendoci al nostro territorio – erano in grado o capaci di sviluppare una amministrazione che attraesse e incrementasse con indubbi vantaggi ricreativi e formativi la vita dei ragazzi durante il soggiorno.
Di qui il graduale ma inesorabile declino, sì che una struttura, pur imponente come la Colonia Scarciglia, è andata incontro all’abbandono.
E tuttavia occorre sottolineare che il ruolo delle colonie estive è stato importante sotto tanti aspetti. In primo luogo quello sanatoriale in quanto non solo garantiva un momento di vita in un ambiente salubre, ma sospingeva alla utilizzazione di una vita igienica, laddove varie abitazioni erano prive dei servizi primari.
Poi i bambini socializzavano e imparavano la disciplina, elementi fondamentali del vivere civile. Così le colonie esprimevano l’esigenza che lo Stato tutelasse e promuovesse sempre di più la salute pubblica, che è un bene essenziale.
Approfondimenti
Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..
di Hervé Cavallera
Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.
Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.
Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.
Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.
Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.
Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.
Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).
È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.
Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.
Festa o vacanza?
Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.
Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.
Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.
È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?
Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.
Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.
Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.
E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.
Approfondimenti
Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte
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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.
I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.
Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.
La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.
Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».
Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».
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Approfondimenti
Muretti a Secco e Pajare
Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre
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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)
Dario ha fatto della sua passione un lavoro.
Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».
Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».
Qual è in particolare il tuo lavoro?
«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».
In particolare, a cosa ti riferisci?
«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».
Il cemento non lo utilizzi affatto?
«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».
Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?
«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».
E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?
«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».
Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»
Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:
«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».
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