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Approfondimenti

A Salve l’Hotel dei migranti

Il nostro reportage in una delle sedi nelle quali l’associazione Arci realizza il progetto di prima accoglienza per gli immigrati richiedenti asilo politico

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I ragazzi hanno appena terminato di studiare. Mi vedono arrivare, mi stringono la mano e sorridono. Sorridono sempre, è il loro modo per comunicare, per dirti che sono contenti di essere qui.


Gli operatori dell'ARCI Rino, Michele e Agnese con alcuni degli ospiti dell'Arca Hotel

Gli operatori dell’ARCI Rino, Michele e Agnese con alcuni degli ospiti dell’Arca Hotel


Michele Contaldi, tre lauree magistrali, uno dei tre operatori dell’Arci, l’associazione che gestisce il progetto, parla con loro: “Non è un avvocato! State tranquilli! Interview is not for Commission but for the newspaper! Ti hanno scambiato per l’avvocato”, mi dice, “sono tutti richiedenti asilo politico e sono in attesa che la Commissione territoriale riconosca loro lo status di rifugiato. I tempi di attesa tuttavia superano di gran lunga quelli previsti dalla legge, prolungando così l’emergenza”.

Arriva un ragazzo nigeriano che s’era perso il discorso e baldanzoso, dritto dritto, fa quello che avevano fatto gli altri: mi dà la mano e mi saluta. E tutti a ridere. Un suo amico in italiano lo richiama: “Ehi! Muntari, che fai? Vieni qui!” Lo chiamano come il giocatore del Milan. In effetti sembra il fratello minore.


L’accoglienza e l’integrazione


L’Arca Hotel di Salve è una delle sedi nelle quali l’associazione Arci realizza il progetto di prima accoglienza per gli immigrati richiedenti asilo politico in attesa di essere trasferiti nei CARA. Il progetto è stato assegnato con bando dalla Prefettura di Lecce. “I ragazzi arrivano qui accompagnati dalla polizia, non hanno nulla se non un documento con i loro dati”, ci racconta Agnese Riso, anche lei operatrice Arci con una laurea in sociologia. Continua: “Noi ci occupiamo di tutto: dai vestiti alle prime necessità, li fotosegnaliamo se non è stato già fatto. La priorità è l’assistenza sanitaria: le cure ospedaliere per i cittadini irregolari privi di risorse economiche viene assicurata tramite il rilascio di un tesserino STP (Stranieri Temporaneamente Presenti). Poi richiediamo anche la tessera sanitaria. Inizia così la loro permanenza nel centro. Molti di loro ci restano per mesi. Vogliamo che si integrino con il territorio che li ospita. Ogni mattina io e Michele facciamo lezioni di italiano presso la sala conferenze che l’Amministrazione comunale ci ha messo a disposizione. Imparare la lingua è il primo passo per l’integrazione. E’ importante per loro uscire, lasciare l’albergo per andare a scuola. Lo fanno volentieri e si aiutano tra di loro e devo dire che danno una grossa mano anche a noi!”.


Il calcio, il vero motore


I ragazzi nel pomeriggio si allenano con gli Amatori Calcio di Marciano e Patù. “Lo sport è una grande opportunità”, dice Rino Letizia, il terzo operatore Arci, uno che lì dentro, se non ci fosse, lo si dovrebbe inventare. Comunica con i ragazzi come se parlasse ad un suo amico, con amore e gentilezza ma anche con decisione: “Andate a studiare che di questo passo l’italiano non lo imparate!”. Loro sorridono e prendono il quaderno tra le mani. Una sana dose di praticità e realtà che rende sincero il rapporto. “Giocare a calcio è un modo per stare insieme agli altri: e sono pure bravi!”, continua Rino. Poi si ferma un attimo e guarda Muddasar, un ragazzo Pakistano: “Insomma… mica tutti. Lui non è proprio un campione” e giù una risata. Ride pure Muddasar. “Ma è bravissimo a costruire i muri in pietra. Il migliore. I ragazzi hanno fatto un corso di formazione professionale per diventare esperti in costruzione di muretti a secco ed hanno rifatto i muri di alcune strade di Salve”. Michele ci tiene a sottolineare che “vengono da tutto il mondo, hanno diverse usanze, culture, religioni e idee, ma si aiutano tra di loro come fratelli, mettono a disposizione il loro tempo per gli altri. Di recente ci sono stati dei nuovi arrivi. Tutti hanno dato una mano, senza risparmiarsi”.


I costi dell’accoglienza


I rifugiati costano allo Stato 30 euro più Iva al giorno. A fronte di tale corrispettivo giornaliero all’immigrato si devono garantire il servizio di assistenza alla persona e di mediazione culturale, la fornitura di beni, servizi di gestione amministrativa, assistenza sanitaria, pulizia e igiene ambientale, l’erogazione dei pasti, e un pocket money di 2,50 euro.

“Questo è un aspetto importante”, insiste Agnese, “qualcuno crede che ai ragazzi vengano dati trenta euro al giorno. Non è così: hanno a disposizione 2,50 euro per le piccole necessità. È’ bene che si sappia. Se hanno avuto un diniego dalla Commissione la polizia fornisce loro un permesso di lavoro temporaneo e possono dunque lavorare. Lavorare sarebbe il massimo per completare il processo di integrazione”.

“Si parla tanto dei costi dei centri di accoglienza”, dice Anna Caputo presidente provinciale dell’associazione Arci, “ma il problema è legato ai tempi di permanenza dei richiedenti asilo politico che restano nel centro tanto, troppo tempo, in attesa della sentenza delle Commissione che, per problemi burocratici, tarda ad arrivare: sei, otto mesi, anche un anno. Per ridurre la spesa basterebbe accorciare i tempi dell’iter. Lo Stato investe su questi ragazzi, insegna loro la lingua, li accoglie, fa di tutto per integrarli e poi? Poi lo status di rifugiato per la maggior parte di loro resta un sogno perché non ci sono i presupposti. Sicuramente porteranno con loro quello che hanno imparato ma non c’è alcun ritorno dell’investimento fatto. Riducendo i tempi si ridurrebbero i costi e tutto il processo avrebbe un significato”.


E la notte tutto ritorna…


“Queste persone lasciano una terra che non gli appartiene più”, racconta Roberta Micali, la psicologa che segue i ragazzi, “cercando di integrarsi in un’altra, che spesso non hanno scelto, definita da una lingua, norme culturali, abitudini e degli stili di vita spesso completamente diversi dalle proprie, nella quale, non vi è calore ma spesso lunghi periodi di “inesistenza”, discriminazione, emarginazione e giudizio costante. Gli orrori vissuti, sono tenuti faticosamente a bada di giorno, mentre, di notte, si ripresentano con forza raddoppiata. Nella solitudine della veglia, le urla, il rumore delle bombe, riecheggiano nelle loro orecchie, nei sogni terrifici e negli incubi. Il calore e l’accoglienza della popolazione ospitante potrebbe costituire un fattore di protezione da ulteriori stress per la loro salute psichica”. Ed il territorio? “E’ da qualche anno che l’hotel ospita immigrati”, spiega il sindaco di Salve, Vincenzo Passaseo, “L’Amministrazione è vicina a questi ragazzi cercando di soddisfare le eventuali richieste e mettendo a disposizione le proprie strutture, come la sala conferenze per le lezioni ed il campo sportivo. Siamo a disposizione per ogni tipo di necessità”.

Sono ragazzi giovani, senza famiglia, senza nulla, con tanta nostalgia ed una dignità immensa. Oggi vorrebbero restare, domani andare e poi tornare. Lavorare, più semplicemente vivere. Prendere il treno ed andare via, chissà dove. Forse a casa. Ma non possono. Sono profughi di guerra o persone in cerca di una vita migliore. E che differenza c’è? Nessuna. Credo proprio che la cosa sia del tutto indifferente. Del tutto indifferente.


Muddasar: “In Pakistan mi hanno portato via la terra con la forza”


MUDDASARMuddasar ha 26 anni e viene dal Pakistan. È arrivato in Italia nel febbraio del 2014 ed è il più “anziano” del centro. La commissione ha già rigettato la sua domanda di asilo ed ora spera nel ricorso con l’aiuto di un avvocato. “Sono scappato dal Pakistan ed era l’ultima cosa che avrei voluto fare. Mio padre ha lavorato in Germania per molti anni ma nel 2000 è venuta a mancare mia madre e così è ritornato a casa. Siamo stati perseguitati da chi ha voluto in tutti i modi portarci via la nostra terra. In Pakistan la corruzione è ovunque, sopratutto negli organi che dovrebbero essere preposti a proteggerci e a tutelarci. La mia colpa? Non voler cedere ai ricatti. Ci hanno costretto con la forza, con aggressioni, a privarci di quello che avevamo. Mio padre mi ha detto di andare via e di ritrovare la mia libertà. Sono partito ormai da 8 anni. Ho passato 6 mesi in Turchia e sette anni in Grecia dove ho lavorato come cuoco in un ristorante. Lì un avvocato mi ha chiesto tremila euro per aiutarmi ad avere l’asilo politico, ma non mi hanno dato nulla. Non era più possibile stare in Grecia anche perchè i militanti di destra più volte mi hanno aggredito. Allora per duemila euro ho fatto la traversata in barca a vela dalla Grecia qui in Italia. Sto bene a Salve con gli altri ragazzi. Mi piacerebbe lavorare in un ristorante”.


Charles: “Sono cristiano e in Nigeria… Il mio sogno? Peace!”


CHARLESCharles viene dalla Nigeria ed ha 25 anni. E’ in hotel dallo scorso giugno. Parla solo inglese, Michele ed Agnese mi danno una mano.

Sembra il più smaliziato dei tre, con un sorriso contagioso. Ha un braccio rotto e lo mostra soddisfatto: “E’ successo giocando a calcio. Mi alleno a Patù con gli Amatori Calcio”. “È bravino!”, scherza Michele, “forse lo tesserano per il campionato”. E lui: “Forza Lazio!”. Ed io: “Perché la Lazio?” Ride: “Ci gioca Onazi, nigeriano come me!”.

Quello che ci racconta è difficile da credere. Il sorriso non c’è più: “Ho attraversato il Niger ed il Mali fino ad arrivare in Libia, a piedi ed in autobus. Economicamente in Nigeria non stavo male: studiavo e lavoravo come commesso in un super market. Ma appartengo ad una famiglia cristiana e da noi la maggioranza sono musulmani. Persecuzioni religiose e scontri politici mi hanno costretto ad andare via dal mio Paese, dove la guerra non è mai finita ed è sempre lì, in agguato”.

Non dice altro, resta in silenzio. E prima che gli potessimo chiedere altro cambia discorso: “Lo sapete che suono le percussioni ed il basso. Mi piacerebbe suonare ancora!”. “Allora mettiamo su una band con gli altri ragazzi!”, lo stuzzica Agnese. E lui a ridere ancora senza nascondere un po’ di imbarazzo. E quando gli chiedo qual è il suo sogno non esita un secondo: “Peace!” E non c’è bisogno di interprete…


Shobhan: “Nel mio Paese ero al primo anno di Medicina”


SHOBHANShobhan viene dal Bangladesh, ha 22 anni ed è a Salve da agosto. E’ il più piccolo dei tre, lo si vede. Timido e silenzioso. Si accarezza la barba, mi dice che è fiero di portarla. Gli chiedo di che fede è. È musulmano.  “Ma non studio il corano”, si affretta a precisare, “ho la barba come un Imam ma non lo sono. Studiavo medicina, ero al primo anno. Nel mio Paese ho cinque sorelle e quattro fratelli, mia madre è morta. È difficile pensare a loro così lontani. Io sono giovane e cerco di guardare avanti. Vorrei restare qui in Italia e lavorare. Poi anche riprendere i miei studi ma per ora spero che mi ascoltino e che io possa rimanere in Italia”.


I rifugiati in Italia


mappa delle migrazioniLa definizione di rifugiato è contenuta nella Convenzione di Ginevra, firmata da 147 Stati nel 1951, che descrive come rifugiato colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”. Il rifugiato è una persona costretta a chiedere protezione in un Paese straniero, perchè abbandonare il proprio Paese è l’unico modo in cui può salvare la propria vita o libertà. Il diritto di asilo e di chiedere protezione è garantito anche dall’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. In Italia vivono 58mila rifugiati: un numero contenuto rispetto ad altri Paesi dell’Ue, basti pensare ai 571.000 rifugiati che vivono in Germania o ai 193.500 del Regno Unito (fonte UNHCR).


I centri per l’immigrazione


(Fonte Ministero dell’Interno)


Le strutture che accolgono e assistono gli immigrati irregolari sono distinguibili in tre tipologie.


Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA)

Sono strutture allestite nei luoghi di maggiore sbarco, dove gli stranieri vengono accolti e ricevono le prime cure mediche, vengono fotosegnalati, viene accertata l’eventuale intenzione di richiedere protezione internazionale e vengono smistati verso altri centri.

Centri di accoglienza (CDA)

Sono strutture destinate a garantire una prima accoglienza allo straniero irregolare. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l’identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l’allontanamento.

Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA)

Sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l’identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato.

Centri di identificazione ed espulsione (CIE)

Tali centri si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari. Il Decreto-Legge n. 89 del 23 giugno 2011, convertito in legge n. 129/2011, ha fissato il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri a 18 mesi complessivi.


Approfondimenti

Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..

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di Hervé Cavallera

Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.

Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.

Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.

Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.

Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.

Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.

Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).

È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.

Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.

Festa o vacanza?

Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.

Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.

Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.

È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?

Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.

Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.

Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.

E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.

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Approfondimenti

Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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PER APPROFONDIRE SULLE VOLTE A STELLA CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

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