Approfondimenti
Tempio crematorio: “Si faccia referendum”
Il gruppo ApertaMente: “Sospendano il bando di gara per avviare un processo partecipato nel quale istituzioni, cittadini ed esperti si confrontino”
La decisione presa all’interno del Municipio non è andata giù ai consiglieri di opposizione e al movimento civico “Apertamente” da loro rappresentato.
Ciò che ha maggiormente indispettito è stata “la mancata partecipazione a tutti i livelli”, come chiarisce il consigliere di minoranza Fabio Di Bari, “hanno deciso al chiuso del palazzo; ne siamo venuti a conoscenza prima con la delibera di giunta e successivamente con la pubblicazione del bando.
Ci tengo a precisare che il gruppo consiliare di minoranza, al fine di poter esaminare e studiare nei dettagli il progetto, ha richiesto formalmente gli elaborati protocollando tale richiesta il 13/10/2015. Come ormai prassi l’attesa è stata lunga, e al solito, solo dopo 90 giorni abbiamo ricevuto quanto richiesto.
Si tratta di un mega progetto che ha implicazioni salutistiche, ambientali e sociali: sarebbe stato quantomeno rispettoso, nei confronti di tutti, attivare un largo processo di condivisione e possibilmente cercare di capire che cosa ne pensassero i botrugnesi. Invece nulla! Solo dopo la nostra assemblea, durante la quale abbiamo informato i nostri iscritti, e dopo una nostra azione di volantinaggio, la notizia si è diffusa e la gente ha cominciato a prendere contezza di ciò che sta accadendo”.
“La proposta di project financing è stata presentata il 5 marzo scorso”, incalza Gabriele Manzo, del direttivo di Apertamente, “tale proposta prevede che gli investitori impegnino circa 2,5 milioni di euro, realizzino per intero l’opera, avendo in cambio la gestione per 30 anni. Al Comune, invece, dovrebbe andare il 4% annuo, salvo offerte migliorative, con il tempio crematorio a pieno regime. Abbiamo fatto i nostri studi e scoperto che, oltre alle due aziende di Domodossola che cureranno la parte edile, amministrativa e burocratica, nell’Associazione Temporanea d’Impresa che ha presentato la proposta, c’è la Futurcrem di Ruffano, cui spetterà la competenza per la gestione dell’impianto ed è una società costituita, guarda caso, appena pochi mesi fa… Da quanto abbiamo potuto visionare, ci risulta che saranno assunte 5 unità lavorative, ma non c’è alcun vincolo relativo alla residenza, quindi non è detto che si tratterà esclusivamente di cittadini di Botrugno. Recepita la proposta, la giunta, il 27 maggio scorso ha deliberato dichiarando l’impianto di “pubblico interesse”… Trattandosi di un’opera di pubblico interesse, con due milioni e mezzo di euro in ballo e con tali implicazioni di impatto ambientale e salutistico, riteniamo che coinvolgere i cittadini sarebbe stato il minimo”.
“Il sospetto che si sia voluto portare avanti il tutto senza clamore aumenta”, riprende la parola il consigliere Di Bari, “se si pensa che siamo stati convocati in Consiglio comunale per approvare una variazione di opere pubbliche e, in quell’occasione, è stato citato un progetto per il passaggio della scuola media a ludoteca; si parlava di variazioni di opere pubbliche, ma nessuno ha fatto riferimento al progetto del tempio crematorio…”. Altra stranezza secondo il consigliere di minoranza, “il fatto che su 97 Comuni, compresi centri più grandi come Casarano ed Ugento, nessuno ha manifestato concretamente interesse a realizzare l’impianto crematorio”.
Quello che la gente vuole soprattutto sapere, però, è: ci sono rischi per la salute? “La premessa importante è che già viviamo in un territorio ad alta incidenza di tumori e classificato ad alto rischio; in questa situazione si vanno ad aggiungere emissioni non di poco conto, sempre sperando che i filtri di cui si parla funzionino sempre alla perfezione”. È vero che non è prevista una valutazione di impatto ambientale? “Verissimo. A norma di legge purtroppo non è prevista; sono richieste, invece, una autorizzazione alle emissioni in atmosfera da parte della Provincia e un’altra a firma della Asl. Ciò che preoccupa di più è l’elenco delle sostanze contenute nelle emissioni gassose che dovremo sorbirci per 30 anni e per 12 ore al giorno da un impianto che sorgerà alle porte del paese assai vicino al centro abitato e ad un campo sportivo”.
Fabrizio Puce, anche lui del direttivo di Apertamente, sottolinea come “il progetto approfitti di un vuoto normativo della Regione Puglia, perché si basa in parte sulla normativa dei termovalorizzatori ed in parte su quella cimiteriale. Non esiste a livello regionale una normativa che specifichi quali siano i requisiti per un impianto di cremazione. È naturale che sorga il sospetto che un’azienda che operi in questo campo prenda utilitaristicamente solo ciò che c’è di vantaggioso per se stessa da una normativa e dall’altra. Il fatto, poi, che non sia prevista una valutazione di impatto ambientale quando c’è di mezzo un bruciatore che raggiunge gli 850° C per lavorare a pieno regime e che emette in atmosfera quantità di cianuro, ossidi di zolfo, ossidi di azoto, tallio, cadmio, mercurio, zinco, metalli vari e soprattutto diossine e dibenzofurani (composti molto tossici e cancerogeni), dovrebbe comunque farci rizzare le antenne”.
“Ciò che ci sorprende”, aggiunge Gabriele Manzo, “è che il nostro sindaco sia uno pneumologo e dovrebbe ben conoscere i rischi a cui si va incontro e quindi dovrebbe essere il primo a dichiararsi quantomeno perplesso. Così non sembra, anche perché ad ogni nostro tentativo di contatto con i membri della giunta, ci viene detto semplicemente di non preoccuparci, che è tutto a posto, senza però specificare come si sia giunti a questa conclusione”.
Il gruppo di Apertamente chiede al sindaco e alla giunta “di sospendere immediatamente il bando di gara in corso, avviare un processo partecipato, nel quale si possano confrontare istituzioni, cittadini ed esperti del settore, per giungere poi ad una scelta condivisa, se opportuno anche tramite la convocazione di un referendum popolare, peraltro previsto dallo statuto comunale, sulla opportunità di realizzare detto tempio crematorio”.
“Abbiamo già provveduto a chiedere un Consiglio comunale monotematico aperto”, insiste Di Bari, “parliamone, valutiamo tutti insieme se il progetto può creare problemi all’ambiente e alla salute dei cittadini. Non solo, valutiamo se porterà realmente dei vantaggi alla comunità: sono anni che parliamo di turismo, che abbelliamo le nostre piazze, spendiamo i soldi della Comunità europea per restaurare il Palazzo Marchesale e poi decidiamo all’improvviso di cambiare vocazione e affidarci alle cremazioni? Qualcuno ha pensato che in questo modo regaleremo le nostre strade e le nostre piazze ad un andirivieni di carri funebri e “arricchiremo” il nostro panorama di una bella ciminiera che sbufferà continuamente?”.
Secondo i rappresentanti di Apertamente c’è anche un’altro rischio, quello di una cattedrale nel deserto. Così Gabriele Manzo: “Dal progetto si evince che l’azienda ha fatto delle supposizioni di guadagno, basandosi su un numero di cremazioni uguale all’1% del totale delle persone defunte: chi garantisce che quell’1% sarà realmente cremato? Se quella famosa soglia delle 1.454 cremazioni l’anno non sarà neanche sfiorata e gli introiti verranno a mancare, che succederà? Se l’azienda avrà difficoltà economiche, il Comune che farà?
Come accaduto in altre realtà, non di rado si è assistito in passato ad operazioni di project financing salvate dagli enti pubblici committenti i quali, per evitare il naufragio degli investimenti, hanno rinunciato alla riscossione dei canoni pattuiti o addirittura è capitato che, per ripianare i debiti, si siano attinte delle risorse pubbliche”.
In conclusione, il consigliere Di Bari ribadisce il punto di vista dell’opposizione: “come al solito, ci troviamo di fronte ad un modo di amministrare del tutto antidemocratico, opaco e arrogante, considerato ormai che da tempo questa minoranza viene etichettata come facinorosa solo perché”, attaccano, “ai signori del Palazzo dà fastidio essere disturbati mentre sono intenti a svolgere un operato del tutto discutibile, come dimostrano fatti e atti amministrativi accaduti in questi due anni di gestione, più volte denunciati agli organi di competenza. Forse”, aggiungono, “è proprio questo il vero motivo di tanta agitazione di questa amministrazione, che in questi mesi si è vista travolta da inchieste giudiziarie che hanno riempito pagine di giornali e da visite poco gradite negli uffici comunali. Una collaborazione iniziale corretta, trasparente e senza veti da parte della maggioranza”, concludono, “avrebbe sicuramente portato la minoranza a non dover ricorrere per forza ad adottare toni duri ed azioni forti per riportare la democrazia e la trasparenza a Botrugno”.
Giuseppe Cerfeda
Approfondimenti
Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..
di Hervé Cavallera
Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.
Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.
Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.
Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.
Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.
Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.
Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).
È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.
Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.
Festa o vacanza?
Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.
Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.
Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.
È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?
Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.
Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.
Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.
E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.
Approfondimenti
Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte
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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.
I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.
Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.
La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.
Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».
Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».
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Muretti a Secco e Pajare
Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre
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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)
Dario ha fatto della sua passione un lavoro.
Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».
Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».
Qual è in particolare il tuo lavoro?
«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».
In particolare, a cosa ti riferisci?
«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».
Il cemento non lo utilizzi affatto?
«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».
Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?
«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».
E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?
«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».
Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»
Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:
«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».
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