Approfondimenti
ISIS e terrorismo: rischio da arginare
Le risposte e le strategie che lo Stato dovrebbe adottare: intervista al Generale Mario Mori
L’Isis avanza e espande la sua potenza tecnologica e informatica. Alla luce di questi elementi urge una chiara analisi dello scenario che va configurandosi e soprattutto delle strategie da adottare. Ne abbiamo parlato con il Generale Mario Mori (nella foto grande in alto).
Alla luce delle sua lunga e notevole esperienza, pensa che il nostro Paese si stia muovendo nel migliore dei modi per arginare il rischio terroristico? “Le risposte che uno Stato deve adottare in relazione alle ipotesi di offese terroristiche che possono presentarsi, presuppongono iniziative relative sia all’aspetto giuridico che al contrasto sul terreno. I tempi dell’iniziativa legislativa derivano da quando il mondo politico recepisce pienamente la valenza del pericolo rappresentata dalle manifestazioni terroristiche. A riguardo risulta fondamentale la reazione della pubblica opinione che in un regime democratico ha un potere determinante, in specie per i tempi della risposta. In queste ultime circostanze la reazione politica è stata tempestiva perché la pubblica opinione italiana, attraverso le esperienze passate, era già sensibilizzata al problema. Nel tempo attuale, caratterizzato dalle manifestazioni del terrorismo fondamentalista, quello che avviene attorno a noi, in nazioni vicine ma anche in teatri operativi lontani, ci raggiunge immediatamente e provoca reazioni pressoché immediate. In questo atteggiamento determinato ci supporta poi anche il vincolo degli impegni internazionali che impongono quasi automaticamente reazioni obbligate. In genere queste reazioni di primo tempo sono normalmente idonee a fronteggiare le nuove emergenze. Le difficoltà insorgono quando un certo tipo di atteggiamento deve essere mantenuto. In queste vicende, caratterizzate da attività di lunga durata, le nostre Forze di Polizia, oltre a sviluppare un’azione di contrasto continuata nel tempo, devono avere il supporto del contesto politico che, di fronte a contrasti, errori sempre possibili, e polemiche di tipo ideologico, dovrà manifestare costantemente il suo pubblico sostegno all’azione sul terreno. Ecco su questo punto occorre sempre la massima attenzione, perché taluni precedenti fanno dubitare della costanza d’intenti del nostro mondo politico rispetto ad atteggiamenti che presuppongono invece coerenza, determinazione ma talvolta anche qualche durezza comportamentale. Tutto ciò posto, ritengo che le iniziative sin qui assunte siano idonee a fronteggiare sul nostro territorio il pericolo rappresentato dal terrorismo fondamentalista”.
Tempo fa, lei ha dichiarato che senza una strategia i terroristi ci colpiranno. Cosa significa esattamente? “Ogni attività umana presuppone una strategia coerente con gli intendimenti che si propone. Il caso della modalità da adottare nel combattere il terrorismo non fa eccezione. L’azione di contrasto, nella fattispecie, si compone di una parte normativa ed una operativa, che implicano obblighi interdipendenti. Il politico non si deve limitare ad emanare leggi idonee allo scopo, ma seguire nel tempo lo sviluppo delle attività, curando che esse si mantengano in linea con i presupposti di partenza, e se del caso intervenire con gli aggiustamenti necessari. Per contro le Forze di Polizia, sul terreno, devono curare che l’azione di contrasto non assuma forme dispersive, evitando cioè quella mancanza di coordinamento nelle attività, in più vicende verificatasi, che molti danni ha provocato all’efficienza ed al buon esito delle operazioni. L’esperienza mi dice che un buon coordinamento tra le Forze di Polizia si può realizzare se c’è condivisione a livello direttivo e quando la magistratura competente è in grado di assicurare un’efficace e corretta funzione di raccordo. Senza questa presa di coscienza rischiamo di trovarci a disagio con un tipo di terrorismo che presenta maggiori difficoltà d’interpretazione rispetto a quello di origine interna. Se infatti con i gruppi terroristici nazionali, per così dire, si gioca ad armi pari, dal fondamentalismo islamico ci separano lingua, cultura, assetti mentali e modi di vivere. Non ci possiamo quindi permettere di concedere anche il vantaggio di affrontarlo in maniera scoordinata, pena gravi insuccessi e conseguenti lutti. All’azione di governo spetta il compito fondamentale di realizzare inflessibilmente un’armonica integrazione degli sforzi. In questo tipo di attività una parte importante deve essere poi attribuita ad una corretta azione dei Servizi d’intelligence che devono assolvere sia la funzione di consulenza per le valutazioni proprie del potere politico, che di supporto informativo per gli organismi di polizia”.
In che modo si sta evolvendo lo scenario dell’Isis? “L’Isis, meglio Daesh, costituisce l’ultima riproposizione pratica, in ordine di tempo, di quella componente del mondo arabo che insegue il sogno della ricostituzione del Califfato. Cioè la riaffermazione del potere e della supremazia del modo d’intendere mussulmano sulle altre forme di religione, civiltà e cultura. La attività del Daesh è caratterizzata da aspetti diversi rispetto a quelli a suo tempo assunti da Al Qaeda che, con le sue azioni, ha mirato anche al piano culturale ed alla diffusione dell’ideologia salafita, avendo come obiettivo di riferimento il mondo islamico. Daesh ha spostato decisamente l’idea di Al Qaeda sul piano pratico, mirando alla materiale conquista del terreno, ed alla sua conseguente organizzazione con le istituzioni tipiche dello Stato sovrano. Questo tentativo è stato realizzato dove forme incerte di controllo territoriale, unite a situazioni conflittuali, si vedano i casi dell’Irak, della Siria, della Libia, hanno consentito ai suoi piccoli gruppi operativi, però oltremodo motivati sul piano ideologico, di conquistare facilmente porzioni significative di territorio, conservate con il sostegno ricevuto da sempre nuovi adepti, che la propaganda dei fatti, caratteristica della sua azione, attira. La sua capacità di attrazione risiede essenzialmente nel fornire giustificazioni esistenziali per le masse giovanili mussulmane, presenti in numero significativo anche nel mondo occidentale, alla costante ricerca di valori che consentano di motivare efficacemente la propria ragion d’essere. Così, in una cultura dove la religione è la parte essenziale e fondante della società, la forza attrattiva del Daesh si rivolge a porzioni sempre più ampie della Umma islamica. Se si osserva però il fenomeno dalla prospettiva strategica, si deve concludere che il tentativo espansionistico dell’organizzazione è una minaccia che non si rivolge all’Occidente ed all’Europa in particolare, ma sottende sopratutto finalità ed obiettivi interni al suo mondo di riferimento. La prospettiva politica del suo capo, l’autoproclamato califfo Abu Bakr Al Baghdadi, è quella della conquista di una porzione di potere nel variegato mondo dell’ideologia mussulmana, caratterizzata dai secolari conflitti tra le confessioni sunnite e sciite, che ha ormai diviso in campi contrapposti la grandi nazioni arabe che ora, nel caso dello Jemen, sono vicine ad un conflitto di natura religiosa ma anche economica. L’Europa, con il suo territorio confinante con quella realtà, non può assolutamente ignorare la consistenza delle minacce che ogni giorno le vengono rivolte, anche perché una percentuale sempre più significative delle sue società è di origine araba, ma deve sapere che non rappresenta l’obiettivo concreto del gruppo terroristico. Daesh si pone come un’organizzazione pericolosa per la nostra società in quanto essa è ineluttabilmente esposta alle iniziative di singoli nuclei terroristici o addirittura a quelle di individui isolati, ma non ha in maniera assoluta la possibilità materiale di attaccare o invadere nessun lembo del nostro territorio. Questo tipo di azioni Al Baghdadi ed i suoi seguaci le ipotizzano per le terre ad etnia mussulmana su cui sperano di estendere un dominio duraturo. Ne consegue quindi che l’Occidente, oltre a decidere misure volte a neutralizzare la potenzialità del terrorismo integralista sul proprio territorio, dovrà sostenere gli sforzi degli Stati arabi che combattono Daesh. E questo, in taluni casi, anche a costo di mettere in secondo piano i propri principi, che il mondo arabo non ha interiorizzato perché non appartengono alla sua cultura, e fare prevalere invece quegli interessi vitali direttamente legati al suo sistema sociale”.
Antonella Marchisella
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Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..
di Hervé Cavallera
Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.
Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.
Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.
Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.
Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.
Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.
Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).
È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.
Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.
Festa o vacanza?
Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.
Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.
Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.
È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?
Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.
Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.
Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.
E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.
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Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte
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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.
I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.
Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.
La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.
Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».
Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».
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Muretti a Secco e Pajare
Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre
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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)
Dario ha fatto della sua passione un lavoro.
Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».
Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».
Qual è in particolare il tuo lavoro?
«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».
In particolare, a cosa ti riferisci?
«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».
Il cemento non lo utilizzi affatto?
«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».
Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?
«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».
E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?
«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».
Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»
Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:
«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».
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