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Attualità

Caronte non molla: un’altra settimana di fuoco

Intanto è emergenza 118: centinaia le chiamate nella notte ai centralini

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In realtà, nulla di nuovo da segnalare rispetto alle scorse settimane: tempo stabile e soleggiato. Ahimè, diranno in tanti, costretti ad un’altra settimana di lavoro al caldo cocente.


Non si smentisce il meteo: Caronte resiste. La notizia è che bisserà quota 40. Termometri bollenti ancora nei prossimi giorni e anticiclone persistente con picchi delle massime che, in particolare martedì e mercoledì, secondo le previsioni di ilmeteo.it, supereranno nuovamente i 40 gradi.


Checché se ne dica, è un caldo anomalo: non una nuvola sui cieli salentini e, soprattutto, non una folata di quel caratteristico vento che abitualmente accarezza il Tacco. Solo il versante adriatico, in particolare verso nord, potrebbe godere di qualche leggero spostamento d’aria rinfrescante.

E se per chi lavora i 40 gradi sono una scocciatura, per chi soffre di patologie respiratorie o cardiocircolatorie e per chi è in età inoltrata, il caldo torrido di questi giorni è una vera e propria allarme. Ne sanno qualcosa gli operatori del 118 le cui ambulanze sono in giro giorno e notte sul rovente asfalto salentino. Sono centinaia le telefonate ai centralini di questa stanotte e quasi altrettanti gli interventi.


Uno stato d’allerta che non accenna a placarsi, almeno per le prossime settimane.


Attualità

Tiggiano festeggia i cento anni di Tetti

Maria Concetta Negro ha spento con la propria famiglia le sue prime cento candeline

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Cifra tonda per  Maria Concetta Negro.

Nata il 26 febbraio 1925, a Tiggiano, Tetti ha spento con la propria famiglia le sue prime cento candeline.

Per l’occasione la visita del sindaco di Tiggiano, Giacomo Cazzato.

In occasione del suo speciale compleanno, il racconto della vita della centenaria attraverso le parole del nipote Mario Negro, che pone l’accento sulle difficili vicende che hanno caratterizzato la vita della donna, vissuta nel periodo della Seconda Guerra Mondiale.

LA VITA DI TETTI

Tetti Negro, oggi 100 anni

Immersa nella preghiera. Un rosario stretto tra le mani. Diffidente, sospettosa. La sua vita è segnata da una vicenda straziante che sconvolse la sua famiglia.

Appena diciottenne, nell’estate del ’43, in pieno conflitto mondiale, fu colta per diversi giorni da una febbre acuta che dovette curarsi con delle iniezioni.

Una di queste punture non venne eseguita correttamente tanto da procurarle un ascesso al gluteo e forti dolori all’anca. Non riusciva più a camminare e reggersi in piedi.

Le terapie dell’epoca seguite in casa non destarono miglioramenti. Si decise allora di ricoverarla all’ospedale di Gallipoli dove stette qualche giorno e, malgrado due interventi di incisione chirurgica alla cute, non volse ad un risanamento.

È proprio in quel periodo di degenza che a molti pazienti di quel nosocomio fu imposto un ordine di sfollamento teso a scongiurare severe perdite umane da eventuali bombardamenti della città, com’erano avvenuti in altre località salentine ritenute potenzialmente strategiche dalle forze militari in campo.

Quei degenti dovevano essere trasferiti altrove e, al padre di Tetti, Biagio, fu proposto di spostare la propria figliola a Napoli oppure a Porto Potenza Picena, sedi più idonee alla piena guarigione di quell’infermità e più sicure dall’avanzare delle truppe alleate ormai sbarcate in Sicilia.

Biagio escluse la città partenopea e diede il consenso ad accompagnare Tetti nelle Marche. Così, dopo i preparativi ed un interminabile viaggio in treno, i due giunsero nella nuova struttura sul litorale adriatico.

Consegnarono i documenti in accettazione ed attesero nell’atrio finché un’infermiera si prese cura di Tetti assegnandole un letto d’un grande stanzone gremito di malati.

Il babbo stette alcune ore al suo fianco e, quando la vide ben accudita, la salutò con un abbraccio, esortandola a scrivere una lettera appena sarebbe stata dimessa, in modo da poterla raggiungere in tempo e riaccompagnarla nel viaggio di ritorno.

Tetti cominciò a conoscere altri malati, tra cui molti militari provenienti d’ogni parte, insieme a volontari, suore e personale sanitario.

Ricevette le cure necessarie alla sua malattia e volgeva via via verso la guarigione.

Dopo qualche settimana, desiderava darne notizia ai familiari; si procurò una penna ed un foglietto intenta a scrivere di sé.

Presto, però, apprese che ciò che stava per fare sarebbe stato vano: quella lettera non poteva essere spedita in seguito ai devastanti eventi bellici che continuavano a minacciare l’intero Paese.

La posta e altri servizi pubblici erano stati bloccati.

Trascorsero così altri giorni di attesa, poi mesi e mesi sempre più difficili che non permisero comunicazioni.

La fine dell’alleanza dell’Italia con la Germania nazista dall’armistizio dell’8 settembre aveva scatenato molta confusione e ulteriori stragi, bombardamenti e rappresaglie.

Quel territorio era ancora controllato dai tedeschi. Eseguivano frequenti ispezioni all’interno dell’ospedale nella ricerca di ebrei, partigiani e disertori.

Tetti, ormai del tutto ristabilita al pieno delle sue forze, continuava a soggiornare nel nosocomio non avendo altra dimora che potesse ospitarla.

Le avevano riservato un posticino in un attiguo capannone da cui, nel vivo delle belligeranze, poteva uscire qualche minuto al mattino per le vie del centro; assistette così al cannoneggiamento da parte dei tedeschi che, in ritirata verso la linea gotica, danneggiarono la torre e la piazza del paese.

Era giugno del ’44 e, pur volendo tornare a casa nel Salento, Tetti non poteva avventurarsi ad affrontare un viaggio pieno di insidie: vi erano tratti ferroviari interrotti e l’accesso ai treni era stato limitato e militarizzato.

A Tiggiano il papà Biagio si recava ogni giorno alla posta sperando di ricevere notizie di sua figlia.

Giungeva a testa bassa sotto la coppola. Posava lentamente la bicicletta davanti all’uscio dell’ufficio, sempre allo stesso punto, in un rituale che auspicava fiducia e speranza.

Entrando, salutava fugacemente i presenti; l’impiegato era pronto a ripetergli: “Non c’è niente”.

Ogni mattina restituiva a casa una nuova delusione che, tuttavia, non faceva vacillare la ferma convinzione che una lettera sarebbe presto arrivata.

Mamma Peppi si dilaniava dal dolore mentre, in costante inquietudine, si occupava della crescita di altri sei figli.

Era passato più di un anno che di Tetti non si sapeva alcunché.

Il papà voleva tornare a tutti i costi in quell’ospedale per verificare la situazione della figlia. In questo incognito viaggio fu vivamente sconsigliato. Lasciare il Salento sarebbe stato rischioso.

Oltreché all’assenza di treni disponibili, il suo nome avrebbe destato sospetto nel fermento generale degli schieramenti per aver gestito un ufficio di collocamento del regime e, qualora fermato ai controlli, poteva essere interrogato con inimmaginabili sorti.

A Porto Potenza Picena erano in molti a conoscere Tetti: la ragazza salentina che non riusciva a tornare nella sua terra.

La sua permanenza in paese era diventata estenuante e rientrava nei tanti ineluttabili drammi della guerra.

Un mattino, in astanteria, le si avvicinò un ufficiale delle truppe alleate che aveva partecipato alla liberazione dall’occupazione nazi-fascista della città.

Era un sottotenente polacco che girava con una Jeep Willys e, udito il racconto della sua vicenda, le propose un salvacondotto o di salire su d’un convoglio che s’apprestava a dirigersi a Brindisi.

Tetti non accettò, confidando: “Verrà mio padre a prendermi”.

Giorni dopo, altri pugliesi la invitarono ad unirsi in un incerto viaggio di ritorno verso casa. La risposta di Tetti era sempre la stessa, preferiva starsene lì, circospetta, pronta a nascondersi ed a ripararsi durante gli attacchi ed i rastrellamenti, certa che, un giorno, suo padre l’avrebbe raggiunta.

Al mattino saliva al quinto piano dell’edificio. Il mare che osservava dalle grandi finestre le echeggiava i felici momenti trascorsi insieme ai suoi familiari a raccogliere cicorie selvatiche, mirti e critimi sulla scogliera di Torre Nasparo.

Intanto, mamma Peppi a Tiggiano continuava a tormentarsi dai tristi pensieri.

L’ansia di saper qualcosa le procurava tanta trepidazione e, inopinatamente, nel sogno di una notte, le apparve sant’Ippazio che le diede un messaggio premonitore: “Non affliggerti. Tua figlia sta bene! Presto riceverai sue notizie.”

Era già la primavera del ’45.

Gli eventi storici spingevano verso la fine delle ostilità e, con l’aiuto di una suora, Tetti riuscì ad affrancare e spedire una cartolina per la sua famiglia, con la quale comunicava di star bene e di essere pronta ad aspettare il papà alla stazione ferroviaria di Potenza Picena-Montelupone.

Un paio di settimane e la missiva giunse alla posta di Tiggiano.

Quel mattino il papà Biagio, sorpreso d’immensa gioia, ritirò il messaggio e lo portò immediatamente a casa.

Mamma Peppi intravide il marito radioso che sventolava il cartoncino. Colse la notizia come un miracolo, suscitandole enorme meraviglia.

S’inginocchiò per qualche istante, poi, come per adempiere fedelmente ad un indubbio riconoscimento, si diede una ravvivata ai capelli, li strinse al fermaglio sulla nuca, sistemò la lunga gonna nera (cd. vistiano), ritoccò leggermente la spilla della Vergine fissata sul corpetto di lino (cd. sciuppareddhu) ed uscì di casa; iniziò a trascinarsi in ginocchio fino a giungere in chiesa e ringraziare il santo patrono.

La strada era battuta di pietrisco (cd. fricciu) che dopo pochi metri sfilacciò la sua veste e le sbucciò le ginocchia fino a farle sanguinare. Lei, come presa d’estasi, non avvertì alcun dolore e non se ne curò; continuava imperterrita il suo cammino penitenziale recitando lodi di gloria per tutto il percorso.

Il suo passaggio lasciava la gente sgomenta anche se, in paese, non erano insolite simili vedute di devoti; in molti assistevano a tali rituali con sentimenti di incoraggiamento e partecipazione.

I preparativi di Biagio per affrontare il lungo viaggio erano pronti. Nei sacchetti a tracolla (cd. pasazze) aveva sistemato un pezzo di pane, del formaggio e della frutta.

Attese il rientro della moglie, poi si diresse alla stazione. Salì sul primo treno per Lecce.

Il viaggio proseguì su d’un treno merci che giunto a Bari restò fermo l’intera giornata. La città era avvolta da una fitta nube nera. Nel porto c’era stata un’immensa esplosione (cfr. nave Henderson) che aveva provocato centinaia di morti e feriti.

Poi, a notte fonda, si diede il via alla ripartenza del treno e Biagio poté proseguire il suo viaggio sino a raggiungere Potenza Picena al mattino.

Quel giorno di aprile del ’45 il sole splendeva alto nel cielo. Tetti sedeva sulla panchina della stazione. Il papà la notò già dal finestrino e, appena sceso dal vagone, corse velocemente a riabbracciarla. Entrambi furono invasi da enorme commozione.

Biagio si guardò intorno, poi sedette anch’egli. Vide la figlia un po’ cresciutella. Dialogarono intensamente, ancor più guardandosi negli occhi senza proferir parole.

Tetti lo accompagnò alla fontana per dissetarsi e rinfrescarsi dal lungo viaggio compiuto. Era finito un incubo. Si poteva finalmente rientrare a casa. C’era un treno dopo qualche ora.

Tetti volle quindi salutare gli amici dell’ospedale unitamente al babbo; così fece con suor Antonia, suor Francesca e don Simone e tanti altri con cui spesso s’intratteneva, si confidava e si aiutava a vicenda.

S’abbracciarono con reciproca gioia per la terribile guerra ormai terminata e la fine di quel distacco dai propri cari che Tetti dovette affrontare per quasi due anni.

Tetti tornò a Tiggiano.

Il suo babbo le era stato accanto per tutto il viaggio. Arrivarono a casa. Ci fu una grande festa in famiglia.

Da quel giorno non si discostò più dalla madre finché Peppi non morì nell’84.

Non si unì con nessun uomo, nonostante avesse maturato un aspetto disinvolto da quell’esperienza vissuta e non le mancassero proposte di matrimonio alle quali, delle volte, rispondeva di non essere pronta, ma in cuor suo, seriamente, non le piacque alcun corteggiatore.

Restò nubile, sempre accanto ai genitori, legata a quella presenza fisica da cui dovette starne lontana per il lungo periodo della sua disavventura e per cui desiderava non separarsene più.

A Tiggiano non conoscevano la sua vicenda.

Quel periodo di assenza dal paese lasciava presumere che fosse stata ai lavori stagionali al magazzino del tabacco o nelle campagne brindisine o tarantine.

A lei, invece, piaceva raccontarsi per ricordare personaggi, luoghi, date storiche e misfatti della guerra.

Pensava fosse noto a tutti quanto accaduto, cercava dialoghi, conferme.

Alcuni l’ascoltavano un po’ increduli, qui non vi era traccia di quei lontani eventi e cominciarono a dubitare alle sue parole.

Altri non esitarono a farla passare per matta per cui non poteva che rattristarsene e chiudersi in casa.

A volte insisteva a narrare quanto aveva conosciuto della guerra ed a spiegare certi fatti a chi li ignorava.

Tranne casi sporadici non c’era alcun interlocutore. La gente trascurava quei discorsi e si mostrava insensibile a mantenere vivi quei ricordi.

La memoria di Tetti era destinata a perdersi.

E, man mano, si rese conto che quelle cose non interessavano a nessuno, non restava che meditarne con sé stessa, senza esternare il suo pensiero né toccare simili argomenti davanti agli altri.

Molti anni dopo, ormai ultrasessantenne, espresse il desiderio di tornare a Porto Potenza Picena per rivedere quei luoghi in cui aveva vissuto, immaginandoli cambiati in qualche aspetto, ma nella sua mente i ricordi del mare, della stazione e dell’ospedale erano nitidamente localizzati e custoditi in un angolo remoto dei suoi pensieri.

Non voleva tornarci da sola e, tantomeno, vi era qualcuno disposto ad accompagnarla per esaudire questa sua volontà.

Dopo la morte dei genitori continuò a vivere da sola per lunghi anni. Il pomeriggio faceva veloci passeggiate per incontrare fratelli, sorelle e nipoti.

Aveva 75 anni quando cadde vicino casa fratturandosi il femore e dopo un periodo di degenza in ospedale si ricoverò in una casa di riposo a Montesardo.

A 92 anni si fratturò l’altro femore che la obbligò dapprima su una carrozzina e poi quasi costantemente a letto.

È sempre lieta di parlare con chi va a visitarla. Pronta a ricordare tutto, chiede assiduamente come stanno parenti e conoscenti senza tralasciarne alcuno.

Piena di gioia di vivere, dice spesso: “Non voglio morire adesso!”.

Il suo esile corpo conserva un sano equilibrio interiore e, nel suo nascondimento, ha bisogno ancora di pregare su questa terra.

Quell’esperienza vissuta le ha definito la fragilità umana e come essa esprime le sue contraddizioni.

Quante anime nutre ancora quel rosario!”.

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Attualità

Cittadella della Giustizia a Lecce: «Risposta ministro evasiva”

Nordio risponde all’interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle. Leonardo Donno e Iunio Valerio Romano: «Pare avere scaricato ogni responsabilità, in ordine al cambio di rotta, sui rappresentanti degli uffici giudiziari e del foro locali, ovvero proprio su coloro che hanno richiesto un polo logistico unitario e funzionale»

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Cittadella della Giustizia a Lecce, è arrivata la risposta del ministro Carlo Nordio all’interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle, presentata dopo la diffusione delle notizie in merito agli stanziamenti finanziari e in ordine alla reale volontà di portare a compimento un serio e definitivo progetto strutturale, piuttosto che limitarsi a tamponare le urgenze, legate ad una situazione logistica precaria e poco dignitosa, attraverso meri interventi di manutenzione, peraltro obbligati dalle più elementari esigenze di messa in sicurezza.

Leonardo Donno, primo firmatario dell’interrogazione parlamentare al ministro Nordio sulla Cittadella della Giustizia a Lecce

La risposta di Nordio, evidentemente, non ha soddisfatto i pentastellati salentini che per bocca di Leonardo Donno, deputato e primo firmatario dell’interrogazione, e Iunio Valerio Romano, già senatore, rispettivamente Coordinatori M5S per la Puglia e per la Provincia di Lecce, l’hanno definita «evasiva e priva di valore».

«Non solo dal Ministro non sono state fornite risposte sulla destinazione delle risorse finanziarie, che sembrerebbero dirottate in massima parte sul Distretto di Corte d’Appello di Bari», si legge in una loro nota, «in merito alla volontà di dare vita alla Cittadella della giustizia su terreni confiscati alla criminalità alle porte del capoluogo salentino, Nordio pare avere scaricato ogni responsabilità, in ordine al cambio di rotta, sui rappresentanti degli uffici giudiziari e del foro locali, ovvero proprio su coloro che hanno richiesto un polo logistico unitario e funzionale».

Oltre il danno, dunque, la beffa: «Resta da capire come si può pensare di rispondere alle esigenze di ammodernamento ed efficientamento dell’edilizia giudiziaria mantenendo di fatto lo status quo, con stanziamenti finanziari irrisori e non meglio precisati progetti alternativi adeguati all’obiettivo di dare alla città di Lecce, sede di Distretto di Corte d’Appello, un polo giudiziario unitario, moderno e rispondente alle esigenze degli operatori di giustizia e dell’utenza».

LA RISPOSTA DEL MINISTRO CARLO NORDIO ALL’INTERROGAZIONE PARLAMENTARE DEI 5 STELLE

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Attualità

Specchia, la sindaca: «Per attaccare me bloccano tutto»

Anna Laura Remigi: «Passano sopra agli interessi di bambini, famiglie e giovani pur di dare addosso all’amministrazione e al sindaco cercando di smantellare l’equilibrio democratico del paese per instaurare un potere basato sulla paura»

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Duro sfogo social della sindaca di Specchia Anna Laura Remigi contro chi, a suo dire, per attaccare lei e l’amministrazione, osteggia chi si impegna per proporre sport o intrattenimento in paese

«Un attacco senza precedenti, e che non ha eguali in nessun comune», attacca la prima cittadina senza citare i destinatari della sua invettiva, «si sta realizzando ai danni delle squadre di calcio e pallavolo di Specchia e ai danni di chi vuole fare eventi di intrattenimento pubblico organizzati dalla Proloco e dall’associazione sportiva-culturale “Lucrezia Amendolara”, in particolare per questo carnevale».

Remigi pone l’accento su «la cattiveria e la protervia di certa gente», che «passa sopra agli interessi di bambini, famiglie e giovani pur di dare addosso all’amministrazione e al sindaco cercando di smantellare l’equilibrio democratico del paese per instaurare un potere basato sulla paura».

Poi spiega: «Dopo che tanti organismi di controllo hanno fatto le verifiche sugli edifici comunali (Vigili del fuoco, ASL, SPESAL, Carabinieri, ecc.) nuovamente i Carabinieriche fanno il loro dovere») sono tornati a chiedere carte e documenti che, naturalmente verranno forniti come in passato. Si lavora sotto il fuoco continuo di denunce, esposti e calunnie, ma», rassicura, «si lavora con forza e coraggio».

«L’amministrazione lavora per la gente e nell’interesse della gente sempre e comunque», conclude Anna Laura Remigi, «non si fa intimidire e proteggerà in ogni modo la collettività favorendo i giovani e le famiglie consapevole che lo sport è vita e che le attività sociali sono alla base di una società libera e moderna che ha a cuore i propri figli».

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