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Approfondimenti

Gli effetti del Covid sull’economia provinciale

Il Salento accusa il colpo più duro sul fronte economico. Quello che sta caratterizzando questa fase di emergenza Covid, è lo spettro della recessione e dal conseguente pericolo rappresentato dalla diffusione di maggiori diseguaglianze sociali.  Questo è il preoccupante scenario che emerge dal rapporto “L’economia della Puglia 2020” presentato  dalla Banca d’Italia. E in questo quadro le donne…

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Come è avvenuto in tutto il Paese e in particolare nel Mezzogiorno anche in Puglia il confinamento e la chiusura imposta dalla pandemia ha prodotto una significativa perdita di Prodotto interno lordo.


Infatti nella nostra regione il calo del Pil si è attestato intorno al quattro per cento rispetto al cinque per cento in meno registrato a livello nazionale. Un dato che fa il paio con l’arretramento anche degli indicatori del benessere, se è vero che la Puglia è la quarta regione italiana per numero di domande per il reddito di cittadinanza e una quota di famiglie in povertà relativa, ossia con una spesa equivalente inferiore alla metà di quella media nazionale che, nel 2018, era pari al 20% per cento, a fronte dell’11,8 dell’Italia.


L’emergenza Covid-19 «sta avendo significative ripercussioni sul mercato», si legge nel rapporto.


La quota di occupati nei settori sospesi da marzo a maggio è stata del 31%; a marzo il flusso di nuove assunzioni nel settore privato non agricolo si è ridotto di oltre un terzo.


Nei primi quattro mesi del 2020 le ore di Cig autorizzate sono, infatti, quintuplicate viene sottolineato nella relazione tecnica.


Anche la Svimez, che raramente indugia su stucchevoli “narrazioni”, nel confronto tra quest’anno e quello che verrà, prevede per la nostra regione una marcata recessione.


All’interno di questo fosca cornice notiamo che è Lecce la provincia ad accusare il colpo più duro sul fronte economico.


La crisi generata dalla pandemia ha provocato una sforbiciata nei post di lavoro di non poco conto.


Sono esattamente 2.646 i dipendenti persi nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto: di questi, più della metà, ossia 1.593, sono in provincia di Lecce.


È quanto emerge da uno studio sulle imprese attive, riferito al primo semestre di quest’anno, condotto dall’Osservatorio Economico di Aforisma School of Management.


«Nel Leccese», spiega Davide Stasi, responsabile dell’Osservatorio, «si è passati da 179.128 unità lavorative a 177.535. La perdita di questi posti di lavoro è dovuta, principalmente, al mancato rinnovo dei contratti a termine e per la forte stagionalità del settore turistico-ricettivo (-1.216 addetti), oltre alla crisi sul fronte dei servizi di informazione e comunicazione (-1.427)».



Anziani, servizi  e impegni di cura delle donne al tempo del Covid


Lo shock imposto dalla fase emergenziale ha provocato maggiori impegni di cura e assistenza ai figli e agli anziani in famiglia, dove la maggior parte del lavoro domestico è sempre stato svolto dalla donna


La situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha contribuito a mettere in luce alcune caratteristiche del welfare italiano, sostanzialmente centrato sulla famiglia come ammortizzatore sociale e caregiver primario ed imperniato sulla figura femminile. La pandemia ha infatti messo a dura prova molte famiglie, le cui figure più esposte sono state le donne, chiamate a riorganizzare i ritmi della quotidianità dividendosi tra lavoro, cura della casa, gestione delle attività scolastiche e dei momenti di gioco dei figli e spesso assistenza ai familiari più anziani.


Lo rileva Donna e cura in tempo di Covid-19, un’indagine di Ipsos per WeWorld, i cui risultati dimostrano che il 60% delle donne italiane ha dovuto gestire da sola famiglia, figli e persone anziane, spesso insieme al lavoro: un carico pesante, che ha portato 1 donna su 2 in Italia a dover abbandonare piani e progetti a causa del Covid. Gli ultimi dati Istat fotografano in modo impietoso, con la crudezza dei dati, il fenomeno: oltre il 70% del lavoro familiare è a carico della donna; solo il 50% delle donne ha un’occupazione a tempo pieno; la retribuzione del lavoro femminile nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa. Insomma, le donne in Italia quando lavorano sono discriminate e in ogni caso il lavoro di cura (dei propri famigliari e della rete parentale allargata) grava ancora oggi sulle loro spalle.


Una situazione che le costringe a un percorso “multitasking” che incide a fondo sul benessere della loro vita. Quando i demografi, i sociologi, gli psicologi  e gli esponenti sindacali  pongono  oggi con insistenza  il problema della conciliazione dei tempi di vita e di cura, fanno sostanzialmente riferimento agli “equilibrismi” che la donna è costretta a compiere per incastrare nella sua vita quotidiana il lavoro fuori casa, quindi il suo impegno professionale, con tutti gli impegni e le responsabilità legate alla cura domestica, alla cura dei figli e dei suoi famigliari.


Questo perché, ancora oggi, in maniera molto estesa, si ritiene che il lavoro di cura sia di “competenza” pressoché esclusiva del mondo femminile.

«Oltre ad un’innegabile arretratezza culturale che ancora caratterizza il nostro Paese e che risulta evidente nel persistere di tanti stereotipi e luoghi comuni sulla divisione dei ruoli e sulla gestione dei carichi famigliari, una delle cause principali di questa situazione è l’impianto fortemente familistico del sistema di welfare italiano», sottolinea a proposito la sociologa Chiara Saraceno, «che tuttora delega alle famiglie la responsabilità di cura sia degli adulti in condizione di dipendenza, sia dei bambini”.


Che sia per carenza di risorse o per incapacità di intercettare i bisogni della collettività, il welfare pubblico fatica a rispondere alle esigenze delle famiglie.


Un buon numero di famiglie non possono contare ancora oggi su una rete di servizi sociali che consenta ad entrambi i genitori di affrontare gli impegni professionali e quelli legati alle responsabilità famigliari con un minimo di serenità.


Il rischio è quello di un arretramento sociale.


I servizi per le famiglie e l’infanzia erano già pochi prima della pandemia, adesso probabilmente saranno anche meno.


Bisogna tener conto poi di un altro importante aspetto: i danni psicologici prodotti dalla pandemia.


La paura della situazione nuova, inattesa e potenzialmente dannosa per la salute, in una condizione di isolamento sociale, hanno inevitabilmente incrementato il malessere psicologico, predisponendo al rischio di cadute depressive.


Particolarmente esposte a questi effetti perversi  sono le  donne che si destreggiano,  tra l’impegno lavorativo, la scuola  dei figli a casa  e la cura delle  persone anziane. In questi mesi di pandemia è molto cresciuta la richiesta, anzitutto per iniziativa sindacale,  di potenziare l’assistenza al domicilio e ridurre i ricoveri in ospedale e nelle Residenze sanitarie assistenziali.


Ciò che va potenziato sono principalmente le prestazioni sociosanitarie per la tutela del non autosufficiente nelle funzioni della vita quotidiana: per la cura di sé (lavarsi, vestirsi, nutrirsi, usare il bagno, muoversi in casa e fuori) e per la cura dell’ambiente domestico (fare la spesa, cura della casa).


Tutele senza le quali è inutile anche una buona assistenza sanitaria al domicilio, come ben sa qualunque operatore sanitario. Ma questo tipo di interventi non può consistere solo in poche ore settimanali attualmente garantite dagli operatori sociosanitari: le persone non autosufficienti, per restare a casa, hanno bisogno di aiuti per gli atti della vita quotidiana tutti i giorni, e in numero adeguato.


Se ci accontentiamo di un welfare pubblico che al massimo garantisce poche ore alla settimana condanniamo di fatto al ricovero tutti i non autosufficienti che non hanno famiglie che possano integrare queste poche ore, o col loro lavoro di cura o con denaro per assumere badanti.


«Occorre un’assistenza domiciliare sociosanitaria fondata»,  sostiene Maurizio Motta dell’Istituto per la Ricerca Sociale, «su offerte differenziate da adattare alla specifica situazione del paziente e della famiglia: assegni di cura per assumere lavoratori di fiducia da parte della famiglia (ma con supporti per reperirli e amministrare il rapporto di lavoro, ove la famiglia non sia in grado), contributi alla famiglia che vuole assistere da sé, affidamento a volontari, buoni servizio per ricevere da fornitori accreditati assistenti familiari e pacchetti di altre prestazioni (pasti a domicilio, telesoccorso, ricoveri di sollievo, piccole manutenzioni, trasporti ed accompagnamenti), operatori pubblici (o di imprese affidatarie) al domicilio».


La principale indicazione è pertanto quella di migliorare e meglio articolare l’offerta di assistenza domiciliare se, come  previsto, nei prossimi anni  sono destinati ad aumentare gli anziani soli e isolati.


Anche  il demografo Gianpiero Dalla Zuanna ne avverte l’impellente necessità poiché «i pochi figli (o sempre più spesso l’unico figlio) chiederanno agli enti pubblici e al terzo settore di essere aiutati nell’assistenza socio-sanitaria del genitore, sempre più spesso di entrambi i genitori, quando insorgono seri  problemi di disabilità».


Riscontri analoghi si hanno in ambito sindacale. Piero Ragazzini, Segretario Generale Fnp Cisl, rimarca e constata con amarezza che «le nostre richieste per un welfare nuovo, in grado di far fronte alle sempre più numerose e non facili necessità di una vita che si allunga, portandosi con sé patologie croniche da curare con assiduità, non hanno avuto mai risposte, se non quelle che si limitavano a concessioni occasionali poco efficaci. Abbiamo diritto ad una sanità efficiente, all’altezza delle necessità di una società che cambia, che presenta difficoltà sempre crescenti, dove quasi ogni famiglia ha al proprio interno un anziano, un invalido o un disabile a cui prestare assistenza, conciliando il tutto con esigenze lavorative e familiari».


*: Studio del Prof. Gianfranco Esposito, sociologo e responsabile del Dipartimento Welfare della Cisl.


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Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..

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di Hervé Cavallera

Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.

Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.

Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.

Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.

Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.

Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.

Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).

È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.

Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.

Festa o vacanza?

Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.

Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.

Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.

È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?

Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.

Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.

Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.

E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.

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Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

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