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Rimpasto…Natalizio
Borgia: “Gravante spieghi i motivi delle sue dimissioni”. Il sindaco Colafati: “Gruppo coeso, percorso coerente”
Dopo la revoca attuata lo scorso 25 novembre, il Sindaco di Poggiardo Giuseppe Colafati ha riassegnato le deleghe in seno alla maggioranza avvicendando l’ormai ex assessore Massimo Gravante con il consigliere Anna Celenia Solda. Una decisione presa dopo alcuni giorni di colloqui con i consiglieri del gruppo di maggioranza e la decisione di Gravante di rinunciare alle proprie deleghe (tra cui Bilancio e Sanità) per motivi personali. Per gli stessi motivi – nel corso del Consiglio Comunale tenutosi lunedì 11 dicembre – Gravante ha formalizzato le proprie dimissioni anche da capogruppo di “Responsabilmente Avanti” mentre il neo assessore Solda ha preannunciato la propria rinuncia alla carica di consigliere comunale liberando, di fatto, il posto al primo dei non eletti della lista uscita vincitrice dalle urne lo scorso 6 giugno 2016, Antonio Ciriolo, consigliere surrogante dall’ultimo Consiglio Comunale del 21 dicembre.
La composizione della nuova Giunta è ora la seguente: Damiano Cosimo Longo (confermato nella carica di Vicesindaco con deleghe a Personale, Organizzazione e Verde Pubblico), Marta Greco (assessore a Pubblica Istruzione, Politiche dell’Infanzia, Lavori Pubblici, Edilizia Scolastica, Politiche Sociali), Antonella Pappadà (assessore ad Ambiente, Contenzioso, Pari Opportunità, Politiche Comunitarie) e Anna Celenia Solda (Bilancio, Tributi, Attività Produttive, Commercio e Mercato Settimanale, Sport).
Il Sindaco ha inoltre stabilito di avvalersi di due Consiglieri comunali per particolari esigenze organizzative, al fine di rendere più efficiente l’azione amministrativa conferendo loro apposite deleghe “ad argumentum”.
Tale situazione determinatasi in questi giorni ha avuto delle ripercussioni negli ultimi Consigli Comunali e nella cittadinanza anche per via di manifesti realizzati dal gruppo consiliare di opposizione che hanno tappezzato i muri di Poggiardo e Vaste. Ovviamente le letture e le analisi sono diverse e abbiamo provato a fare luce approfondendo con i diretti interessati le rispettive ragioni.
Il capo dell’opposizione, Oronzo Borgia, punta il dito sul modus operandi del Sindaco, sulla linearità e la trasparenza delle scelte amministrative. “E’ paradossale la situazione che vede dapprima il Sindaco Colafati revocare le deleghe ad assessori e consiglieri riassegnandole dopo circa quindici giorni con la novità delle dimissioni da assessore di Massimo Gravante. Subito dopo la consigliera Solda si dimette e viene “promossa” ad assessore esterno con l’entrata in consiglio di Antonio Ciriolo, il primo dei non eletti nella loro lista. E fa specie ascoltare in Consiglio che tutto ciò è stato necessario per “armonizzare” l’azione dell’amministrazione! A questo punto non è possibile un giudizio definitivo, perché il consigliere Gravante, al quale non erano state confermate deleghe pesanti come quelle a Bilancio, a Commercio e a Polizia Locale, non ha ancora giustificato pubblicamente le sue dimissioni da assessore, un atto dovuto nei confronti dei suoi elettori e dei Cittadini tutti. Il Sindaco Colafati a distanza di 17 mesi dalle elezioni non riesce a tenere coesa la sua maggioranza, come già successo nella passata consiliatura per tre assessori e il Presidente del Consiglio Comunale, trovando l’ancora di salvezza in tre componenti dell’allora opposizione, due dei quali candidati sindaco avversari e ora vicesindaco e Presidente del Consiglio. Sapendo che la storia non potrà ripetersi con l’attuale opposizione, cerca di arroccarsi facendo entrare in Consiglio un suo fidato. Ritengo che le energie spese per questo “teatrino” della politica sarebbe stato più utile impiegarle per risolvere i tanti problemi dei Cittadini”.
Il Sindaco Giuseppe Colafati sottolinea la coerenza del percorso amministrativo anche attraverso questi momenti fisiologici ed i conseguenti cambiamenti programmati sin dall’insediamento della compagine di maggioranza. “Non c’è nulla di strano nell’operare nel corso della consiliatura una redistribuzione delle deleghe per evitare delle sovrapposizioni che talvolta si sono verificate. E’ stata una scelta apertamente manifestata già in campagna elettorale, un patto fatto da tutti i componenti della lista e reso pubblico. All’inizio del mandato, peraltro, abbiamo subito formato la Giunta per metterci al lavoro seppur con tante incombenze tra le quali il peso del ricorso. Si è dunque trattato di un momento di decantazione chiesto dal gruppo e vissuto di comune accordo che non ha comportato alcuna crisi politica, alcun blocco dell’attività amministrativa tanto che tutti hanno continuato ad operare relazionando anche in Consiglio, né tantomeno un rinnegamento di quanto fatto in quest’anno e mezzo. Al momento della riassegnazione delle deleghe, poi, l’Assessore Massimo Gravante ha espresso la propria preferenza a fare il consigliere comunale anziché continuare ad avere un ruolo in Giunta precisando che tale scelta è di carattere personale e che non si sarebbe prestata ad alcuna strumentalizzazione politica poiché, pur rinunciando anche al ruolo di capogruppo, la sua posizione all’interno della maggioranza resta salda. Il mio operato è trasparente, esercito il mio ruolo di Sindaco dialogando con tutte le Istituzioni senza distinzioni di colore col solo intento di proteggere la mia Comunità, quello di saltimbanco della politica lo lascio volentieri a chi lo esercita con disinvoltura”.
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Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..
di Hervé Cavallera
Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.
Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.
Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.
Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.
Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.
Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.
Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).
È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.
Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.
Festa o vacanza?
Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.
Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.
Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.
È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?
Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.
Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.
Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.
E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.
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Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte
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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.
I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.
Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.
La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.
Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».
Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».
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Muretti a Secco e Pajare
Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre
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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)
Dario ha fatto della sua passione un lavoro.
Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».
Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».
Qual è in particolare il tuo lavoro?
«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».
In particolare, a cosa ti riferisci?
«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».
Il cemento non lo utilizzi affatto?
«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».
Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?
«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».
E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?
«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».
Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»
Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:
«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».
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