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Xylella: Il fuoco invisibile

Lo scrittore del libro tra i 12 finalisti del Premio Strega 2024, Daniele Relli: «Necessario ricostruire la fiducia fra mondo scientifico, istituzioni e popolazione Con un po’ più di fiducia nei ricercatori, forse, non saremmo arrivati a questo punto»

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Un dramma ecologico e sociale raccontato in un incalzante romanzo a più voci.


È quello che fa Daniele Rielli in “Il fuoco invisibile” (tra i 12 finalisti del Premio Strega 2024), cercando di capire cosa è accaduto agli ulivi della sua famiglia originaria di Calimera, ricostruendo le vicende legate all’arrivo della Xylella, il batterio che ha causato la più grave epidemia delle piante al mondo.


Tutto inizia a Gallipoli, quando gli ulivi cominciano a seccare e morire in un modo mai visto prima. Si mette in moto un vortice di avvenimenti che prende velocità fino a diventare inarrestabile.


Almeno 21 milioni di ulivi, tra cui molti alberi secolari e millenari, un patrimonio insostituibile, sono morti.


È come se l’intero Salento fosse stato bruciato da un gigantesco fuoco invisibile.


Daniele Rielli


Nell’incipit della nostra intervista Daniele Rielli racconta come è nata l’esigenza di scrivere “Il fuoco invisibile”: «Mio nonno a Calimera era un olivicoltore. All’arrivo della Xylella mio padre, anche se di mestiere ha fatto altro dopo essersi traferito al nord ed aver conosciuto mia madre, ne è rimasto assai turbato. Così il dramma che ha colpito tutto il Salento è stato vissuto anche nella nostra casa su al nord».


Ecco spiegato cosa ha spinto lo scrittore, nato a Bolzano e residente a Roma, ad occuparsi di quanto avveniva nel Salento.


Quali sono i temi de “Il fuoco invisibile”?


«Il libro racconta la storia di quello che è successo attraverso, in primis, la nostra vicenda familiare. Poi il racconto si espande ai vari protagonisti della vicenda. Quindi ai ricercatori, che hanno scoperto la malattia e sono stati ingiustamente accusati per alcuni anni di averla diffusa. Accusa pesante e, ovviamente, non vera ma che, sulle loro vite, ha avuto un effetto molto, molto grave. Lo racconto perché sono persone che ho conosciuto in questi anni: persone per bene ed anche molto brave nel loro lavoro. Questa è una pagina nera della giustizia in Italia. Ho conosciuto anche tante persone che hanno cercato di fare qualcosa per contrastare l’emergenza. Penso, ad esempio, a Giovanni Melcarne, di Gagliano del Capo, uno dei produttori d’eccellenza del Salento che ha sempre cercato di portare l’opinione pubblica su posizioni un po’ più vicine alla scienza. Questo, quando, all’inizio, sia tra la popolazione che tre le istituzioni, si sosteneva che la malattia non fosse così grave o che, addirittura, non esistesse affatto, che fosse un complotto. Giovanni è una di quelle persone che, invece, ha sempre tenuto la barra dritta e ha cercato di trovare soluzioni concrete. Melcarne è uno dei protagonisti del libro così come tanti altri. Ho cercato di fare un po’ la geografia umana di questo disastro, dando voce a tanti che non avevano avuto occasione di parlare. Tanto hanno, invece, parlato i politici, che spesso, però, non hanno detto le cose giuste. Mentre persone più capaci non hanno avuto voce in capitolo».

Hai parlato di processo alle streghe… 


«Una delle reazioni tipiche nella storia dell’uomo è quella di cercare qualcuno a cui dare la colpa di fronte alle epidemie, alle malattie inaspettate. Questo è quello che nel Salento è successo con gli scienziati a livello collettivo prima che giudiziario. Tali credenze, diffuse prima sui social e poi tra la popolazione, hanno ricordato un po’ la caccia alle streghe. Alla fine, per fortuna, è stato dimostrato che i ricercatori avevano fatto solo il loro lavoro ed anche bene».


Dopo aver ascoltato le parti in causa, gli addetti ai lavori, che idea ti sei fatto personalmente di tutta questa vicenda? 


«Sicuramente è stata un’occasione persa. Ora esiste un programma di contenimento che costa anche tanti soldi, ma è giusto che ci sia. Il fatto è che, ormai, su un territorio talmente diffuso diventa difficile pensare di contenere l’epidemia in maniera efficace mentre, all’inizio, si trattava di un territorio molto ristretto, tra l’altro circondato su tre lati dal mare, e si poteva tentare seriamente di contenere e di debellare la malattia. Questo non è stato fatto per una serie di errori umani ed è un peccato perchè l’Italia avrà che fare nei prossimi decenni con questo batterio che ha causato tanti danni e continuerà a causarne. Cosa che si poteva evitare».


Come pensi finirà tutta questa storia? 


«Per il Salento è già finita e bisogna pensare al capitolo successivo: piantare delle varietà resistenti e ricostruire, almeno in parte, l’agricoltura. Poi diversificare perché la monocoltura, dal punto di vista ambientale, non è il massimo e, soprattutto, espone a dei rischi. Aver avuto due sole cultivar, la “Cellina” di Nardò e la “Ogliarola Salentina”, sul 60% del territorio, ha posto un problema di biodiversità e l’arrivo di un patogeno, che ha attaccato quelle due varietà, ha messo in ginocchio tutto il Salento. Non sarebbe accaduto se ci fossero state coltivazioni diverse. Ora si dovrà recuperare una parte di olivicoltura per mantenere viva una tradizione secolare, al contempo, cercare nuove culture da affiancare all’ulivo. Questo per quanto riguarda il Salento.  Per il resto della Puglia e, in prospettiva, il resto d’Italia, bisogna cercare di contenere seriamente, nella speranza che arrivi al più presto una cura definitiva contro questo batterio. Prima o poi si arriverà, bisogna solo capire quando».


Oggi si discute del fatto che il Leccino, la varietà resistente alla Xylella su cui si sta puntando, a differenza degli ulivi nostri di una volta, necessiti di tanta acqua, che noi non abbiamo…


«Con le coltivazioni storiche d’ulivo salentine, era problematico fare un olio di qualità perché erano alti e molto grandi. Quindi era difficile raccogliere le olive dall’albero o, meglio, era molto costoso. Quindi si tendeva a produrre un olio lampante, aspettando che le olive cadessero, a discapito della qualità dell’olio. Con quegli alberi era difficile fare diversamente. Ora, con delle piante più piccole, con delle coltivazioni impostate in maniera diversa, sarà più facile produrre olio di qualità anche se, effettivamente, consumano più acqua… Si guadagna da un lato, si perde dall’altro. Da considerare anche che se per la produzione precedente occorrevano 90mila ettari, oggi con delle piante giovani si può arrivare alla stessa produzione e di qualità migliore con 20-25mila ettari».


Daniele Rielli si congeda con un auspicio per il futuro: «L’eredità di questa storia dovrebbe essere un rapporto migliore tra opinione pubblica e comunità scientifica. Spero si sia capito, ad esempio, che quello che può dire un ricercatore in pensione, non è necessariamente l’opinione dell’intera comunità scientifica. Bisogna andare a vedere qual è il consenso diffuso su un argomento. Quello sulla Xylella è sempre stato lo stesso, sin dall’inizio.  Purtroppo, sono stati molti amplificati i pareri di pochissime persone che davano delle false speranze, sostenendo tesi non fondate. E questo ha avuto un costo importante. A mio avviso è necessario ricostruire la fiducia fra mondo scientifico, istituzioni e popolazione. Con un po’ più di fiducia nei ricercatori, forse, non saremmo arrivati a questo punto».


Giuseppe Cerfeda


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Frantoio fratelli Palma: “Oggi rivediamo la luce”

Quintino Palma, del frantoio Fratelli Palma di Cursi, è uno dei pochi olivicoltori ad esser riuscito a tenere in vita la propria azienda agricola passando per due espianti e per altrettanti reimpianti…

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TRA I POCHI SUPERSTITI

Quintino Palma, del frantoio Fratelli Palma di Cursi, è uno dei pochi olivicoltori ad esser riuscito a tenere in vita la propria azienda agricola passando per due espianti e per altrettanti reimpianti, l’ultimo dei quali in corso solo ora dopo le ormai famigerate lungaggini burocratiche.     Lui e suo fratello sono titolari di oltre cento ettari di terreni destinati all’olivicoltura.

Ripercorriamo l’iter che avete seguito dall’arrivo della Xylella ad oggi.

«In scia alle due misure varate dalla Regione Puglia a supporto degli uliveti colpiti dal batterio, abbiamo eseguito due fasi di espianto cui hanno fatto seguito i reimpianti di alcune varietà di ulivo Xylella resistenti. Con il primo intervento, il “Bando Sottomisura 5.2” per le imprese agricole danneggiate da calamità naturali, abbiamo espiantato un totale di circa 50 ettari di ulivi: 25 sui miei terreni ed altri 25 su quelli di mio fratello.
Con la seconda legge, la misura “Reimpianto olivi zona infetta” di cui all’art. 6 del “Piano straordinario per la rigenerazione olivicola della Puglia”, abbiamo espiantato alti 60 ettari circa».

Come sono andati i reimpianti? Che varietà avete utilizzato?

«Con il primo intervento, abbiamo messo a dimora delle piante di Favolosa. Si tratta di coltivazioni super intensive: la raccolta viene effettuata con dei macchinari, che per altro hanno grandi dimensioni, e quindi necessitano anche di ampi spazi per poter lavorare. I frutti li abbiamo visti in quest’ultimo anno e, fortunatamente, abbiamo avuto un riscontro positivo: l’olio di favolosa che abbiamo iniziato a produrre da queste piante un anno fa è di ottima qualità, ed ha anche un buonissimo sapore. Tra i nostri clienti, infatti, sta riscuotendo un grande successo.
I reimpianti legati al secondo intervento sono invece ancora in corso.

In questo caso stiamo piantando due altre varietà: la Lecciana, che è una pianta frutto dell’incrocio tra il Leccino e l’Arbosana (originaria del Penedès, una regione della Spagna), ed il Leccio del Corvo. Ho deciso di variegare anche per avere una produzione eterogenea: cambiando pianta cambiano gusto e sapore. In questo modo potremo soddisfare maggiormente le richieste dei nostri clienti».

Dopo oltre 15 anni dall’arrivo del batterio, si sta finalmente delineando un orizzonte nel settore?

«Purtroppo, no. La gestione delle misure della Regione ha messo in difficoltà gran parte degli agricoltori. Soprattutto coloro che non hanno avuto possibilità di accorparsi, riunendosi ad esempio in cooperative, ed hanno presentato domanda come singoli. Hanno dovuto far fronte ad attese lunghe anche anni. Questo perché sono state fatte delle scelte politiche farraginose, distaccate dalla realtà, se non addirittura dettate da altri interessi. La gestione delle domande per la seconda misura di cui abbiamo parlato, ad esempio, è stata affidata ad ARIF (l’Agenzia Regionale per le Attività Irrigue e Forestali).

Questo ha fatto perdere tempo prezioso appresso alla burocrazia, con le pratiche che una volta elaborate dovevano tornare in Regione per la definitiva approvazione e, a mio parere, ha risentito anche alla della scarsa competenza in materia dell’ente».

Ha conosciuto olivicoltori che hanno gettato la spugna, anche dopo aver presentato domanda di finanziamento?

«Nel mio stesso frantoio ho incontrato tanta gente che ha visto la sua pratica arenarsi, e che non ha potuto far fronte a ciò che ne consegue, abbandonando le sue coltivazioni. Tante risposte alle domande di espianto arrivate 5 o 6 anni dopo.

Nel frattempo, sono subentrati lo sconforto, in molto casi anche l’anzianità, e si è persa anche ogni possibilità di passaggio del testimone alle nuove generazioni. I figli, mentre gli ulivi secchi attendevano risposta in campagna, hanno giocoforza intrapreso altre strade.

Questi sono terreni che non verranno più coltivati. Non è solo un danno al settore ed un danno economico per tutto il territorio, ma è anche un gravissimo danno paesaggistico per il Salento».

Lorenzo Zito

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Xylella, Cazzato agricoltore di Salve: “Sono fiducioso”

«In una campagna in località Schiafazzi “regnava” un albero di olivo che, secondo molti aveva più di 800 anni ed era talmente grande che, spesso, ci venivano gli sposini per fare una foto”…

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OLIO NUOVO IN CAMPAGNA

Cesare Cazzato di Salve, ingegnere e imprenditore agricolo per scelta, seguendo quella che è la sua passione di sempre per la campagna e tutto quello che ne consegue.

La sua azienda è una di quelle che ha tenuto botta alla devastazione causata dalla Xylella e, su oltre 50 ettari, continua a produrre olio e altri frutti della terra.

Eppure, anche i suoi alberi, tanti, di Ogliarola Salentina e Cellina di Nardò, hanno subìto le conseguenze del batterio assassino.

«Ripresomi dalla botta», si racconta, «ho ricominciato a lavorare grazie ad alcuni alberi che avevo piantato quando è nato mio figlio, nel 1984. Erano alberi di Leccino e, in quella circostanza, colleghi e amici mi prendevano un po’ in giro, perché non avevo puntato sulle solite nostre specie. Oggi posso dire che è grazie a quella decisione se non compro olio da altri».

Così, con l’avvento della Xylella, «mi sono attrezzato, prima con l’eradicazione e poi dissodando il terreno, con un costo anche elevato, perché le radici erano molto profonde, visto che quegli alberi erano lì da tanti anni. Dopo ho ripiantato, puntando su una varietà che si chiama FS 17, nota come “Favolosa”.

L’ho potuto fare anche perché ho la fortuna di possedere un pozzo artesiano e, quindi, ho disponibilità di acqua. La “Favolosa” ha costanza nella fruttificazione e vasi linfatici più grossi che le consentono di non subire le conseguenze del batterio della Xylella che, invece, ha ammazzato le altre specie un po’ come fa la trombosi col corpo umano, cioè creando dei glomeruli all’interno dei vasi linfatici che ne interrompono le funzioni vitali.

Il Leccino e la Favolosa non sono immuni alla Xylella, semplicemente hanno vasi linfatici più larghi, con un diametro maggiore, per cui, anche se i batteri nidificano, continuano comunque a vivere e fruttificare senza conseguenze».

Cazzato racconta del suo monumento alla memoria: «In una campagna in località Schiafazzi “regnava” un albero di olivo che, secondo molti aveva più di 800 anni ed era talmente grande che, spesso, ci venivano gli sposini per fare una foto nel suo tronco. Anch’io conservo delle foto con tutti gli operai dentro e vicino quel miracolo della natura.

Bene, quell’albero, o quel che ne resta dopo la Xylella, l’ho voluto conservare, non me la son sentita di eradicarlo. Resterà lì come una statua, un monumento alla memoria».

Anche se l’attività col passare degli anni gode del supporto delle macchine, Cazzato ha ancora dei dipendenti e si dice felice di godere della «collaborazione di molti giovani dediti alla campagna che mi fa piacere incoraggiare».

Aspetto fondamentale su cui si dovrà puntare, quello della diversificazione: «In uno dei miei terreni, tra Presicce e Lido Marini, che ho dissodato, in questo mese pianterò fichi. Si tratta di “Fiche Maranciane” (« praticamente, non hanno bisogno di acqua, sono resistentissime e danno frutti di grande pregio»), e del Fico Dottato (« il migliore d’Italia, quello bianco e con i semi, molto piccoli. Il suo frutto è particolarmente apprezzato»)».

Che futuro in campagna?
«Diversificando avremo ancora un futuro. Sono convinto che tra una decina d’anni il Salento sarà più verde di prima. L’unica eredità positiva che ci lascia la Xylella è la qualità dell’olio.
In passato tutti noi abbiamo piantato alberi molto vicini e per tanti motivi producevamo olio rampante. Dopo quanto accaduto, finalmente, siamo costretti a produrre olio di altissima qualità senza lasciare che le olive cadano a terra. Sono fiducioso.
Anche perché il Salento è un’isola tra i venti. Il vento è l’impollinatore dell’olivo che è una pianta anemofila, cioè ama il vento».

Quindi è già  tempo di voltare pagina e smettere di piangersi addosso per la Xylella?
«Ho piantato mille alberi di Favolosa che già fruttifica. L’olio lo vendo, i numeri non sono ancora quelli del pre-Xylella ma si può andare avanti.
A suo tempo ho avuto la lungimiranza di non disfarmi dell’attrezzatura, come hanno fatto altri, ed ho conservato scuotitore, trattori e quant’altro, perché ero convinto che il Salento sarebbe ritornato verde».

Infine, Cazzato svela: «I nuovi alberi li piantiamo a due metri e mezzo di distanza l’uno dall’altro, perché esiste una macchina, una specie di vendemmiatrice, che passa per filare, scuote e raccoglie le olive e le trasferisce nel rimorchio che corre accanto come se fosse grano. Questo sarà il nostro futuro».

Giuseppe Cerfeda

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Xylella, un altro studio appena pubblicato

Lo studio del prof. Bruno propone il protocollo NuovOlivo® come strategia per consentire la coesistenza tra Xylella e la produzione di olive e olio extravergine di oliva della Cellina di Nardò e dell’Ogliarola Salentina

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ALTRO STUDIO, NUOVOLIVO®
prof. Giovanni Luigi Bruno

Uno studio, pubblicato di recente, del prof. Giovanni Luigi Bruno (il secondo), ricercatore del Dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti dell’Università di Bari, sulla “Coesistenza tra Xylella fastidiosa Subsp. pauca e piante di olivo sensibili nella penisola salentina” (vedi a pagina 24), ci ha spinto ad approfondire ancora una volta da queste colonne quello che è stato un cambiamento epocale per il Salento, con la morte di quegli ulivi che per millenni hanno caratterizzato il nostro territorio e che per decenni sono stati al centro dell’economia della sua gente.

La sindrome del disseccamento rapido dell’olivo associata a Xylella fastidiosa è una delle malattie più distruttive degli olivi, in particolare sulle cultivar Cellina di Nardò e Ogliarola Salentina.

Lo studio del prof. Bruno propone il protocollo NuovOlivo® come strategia per consentire la coesistenza tra Xylella e la produzione di olive e olio extravergine di oliva della Cellina di Nardò e dell’Ogliarola Salentina: «Trentadue oliveti privati colpiti da OQDS e coltivati seguendo le tecniche agronomiche in uso nella zona sono stati esaminati durante le stagioni olivicole 2019-2023.

Sono state considerate le cultivar Cellina di Nardò, Ogliarola Salentina, Coratina, Ascolana Tenera, Nociara, Leccino e Bella di Cerignola. All’inizio dell’applicazione del protocollo, le piante sensibili mostravano una gravità dei sintomi OQDS del 40-80% e non producevano olive o olio, mentre le cultivar resistenti(?)/tolleranti mostravano una produzione di olive inferiore a 1-2 kg/pianta.

Dopo la rimozione dei rami secchi a gennaio-febbraio, le piante sono state irrorate due volte all’anno (preferibilmente a marzo e ottobre) con NuovOlivo®, una miscela di estratti botanici in acqua esterificati con oli vegetali in presenza di idrossido di sodio e attivati al momento dell’uso con bicarbonato di sodio. In tutti gli oliveti è stato distribuito un concime a lento rilascio e le erbe infestanti controllate mediante falciatura o triturazione.

Gli olivi trattati hanno prodotto nuova vegetazione, ricostruito la chioma, ridotto i sintomi di OQDS e prodotto infiorescenze e drupe. La produzione di olive è stata da 6,67 a 51,36 kg per pianta, con una resa media del 13,19% in olio extravergine di oliva (acidità libera 0,01–0,2%)».

Secondo il ricercatore, «anche il paesaggio e l’economia pugliese, basati sulla presenza e la produzione di olivi, potrebbero essere salvaguardati».

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