Approfondimenti
Tempio crematorio, il sindaco: “Nessun rischio”
Barone rassicura: “Non mi giocherei mai 37 anni di carriera: possiamo considerarlo un tempio a impatto zero”
Il sindaco di Botrugno, Pasquale Barone, ci accoglie in Municipio e ci presenta, con la calma di chi ha le idee chiare, il progetto del forno crematorio (FOTO). Risponde alle nostre prime domande partendo con una puntualizzazione: “Ci tengo a ricordare che quello di cui stiamo parlando è innanzitutto un tempio crematorio, non un forno. È sfuggito alla mente di molti che si tratta di un luogo che ha un valore sacro e che è qualcosa di più del forno che andrà a contenere”.
Presentiamo subito al primo cittadino i timori dell’incalzante opposizione e di buona parte della cittadinanza, scossi dai rischi per la salute e per l’ambiente.
“I cittadini possono stare tranquilli: ho analizzato dei dati, derivanti da studi di settore, che dimostrano come questi impianti possano essere considerati a impatto zero”.
Non ci saranno emissioni di cianuro, ossidi di zolfo, ossidi di azoto, tallio, cadmio, mercurio, zinco e metalli vari?
“Tutte le sostanze che si teme possano nuocere alla nostra salute, verranno emesse in quantità trecento o quattrocento volte inferiori ai limiti di legge”.
Dobbiamo temere il fatto che non sia richiesta da legge una Valutazione d’Impatto Ambientale?
“Nonostante non sia ufficialmente pretesa, io richiederò ugualmente all’Arpa un rapporto sull’impatto ambientale. E aggiungo anche, sapendo che in paese si vocifera di ciminiere, che non stiamo parlando di un altoforno o di un impianto di biostabilizzazione: non esisterà alcuna ciminiera! È importante in quest’ottica capire che non è un forno che brucia per tutto il giorno come un impianto industriale. Sarà in funzione dalle 2 alle massimo 4 ore al dì e non emetterà fumi ma vapore acqueo. Consentitemi la battuta, inquina di più una pizzeria molto frequentata che un tempio crematorio…”.
Si prevede però l’arrivo di oltre mille salme all’anno. Cifre superiori all’impianto di Bari.
“Anche con questi numeri, siamo nell’ordine delle 3 o 4 salme al giorno, che non impiegherebbero i forni per più delle ore suddette”.
Quindi non è vero che per ogni cremazione si impiegano circa 4 ore?
“Assolutamente no. È senz’altro una procedura che prevede una meticolosa preparazione ed alcune ore di lavoro. Ad esempio i pacemaker non possono essere bruciati e vengono quindi rimossi prima di procedere. O ancora, le protesi metalliche vengono separate dalle ceneri per evitare che se ne disperdano residui nocivi nell’ambiente. Ma non si arriva mai alle 4 ore di combustione per una salma”.
Scongiurate quindi ricadute su salute e ambiente, si può escludere anche un impatto negativo sul territorio, ad esempio in termini di turismo?
“Non vedo che influenza possa avere un tempio crematorio sul turismo. Stiamo parlando di costruzioni che non hanno nulla di funereo. Vi dirò di più: abbiamo fatto un’indagine sui tempi crematori in Italia. È emerso che sono quasi tutti ubicati al centro nord e collocati, in molti casi, in cimiteri al centro dei paesi o in aree addirittura turistiche. Questo significa che al nord sono tutti pazzi? Non direi… Ho l’impressione che si stia cercando di addebitare una serie di pericoli ad un progetto che non porta problemi. Le criticità che affliggono il nostro territorio son ben altre. Ed è su quelle che bisognerebbe riporre tanta attenzione. Nel nostro caso, il tempio porterà piuttosto una serie di indotti positivi”.
Ossia?
“È importante per piccoli Comuni come il nostro mettersi nella condizione di avere delle entrate proprie, soprattutto in un periodo in cui i governi procedono a tagli continui. E questo progetto promette delle entrate consistenti per Botrugno. Il bando di gara parla già di 15mila euro di base, cui si aggiunge un il 4% del fatturato totale. Introiti che un domani ci permetteranno di avere servizi a costo zero per la cittadinanza, come potrebbe essere per il cimitero o per un pullman per le scuole. E poi, con tutto ciò che può nascere attorno, si crea un indotto positivo per la comunità”.
E se invece le stime fossero sovradimensionate? Se le salme che arriveranno in Salento saranno inferiori al previsto, c’è il rischio di dover investire del denaro pubblico?
“Assolutamente no. La gestione rimane privata senza intervento del Comune in alcun caso”.
L’area dove verrà collocato il tempio è a ridosso del territorio e del cimitero di San Cassiano. Non potrebbero sorgere problemi nel rapporto col Comune limitrofo?
“In realtà siamo in una posizione completamente defilata e abbiamo comunque discusso più volte con il sindaco di San Cassiano di questo progetto senza che sia mai sorta alcuna questione”.
Sarà necessario un adeguamento stradale per il traffico che si verrà a creare?
“Stiamo parlando di tre o quattro salme al giorno. Non vedo come possa accentuarsi il traffico”.
L’opposizione lamenta la mancata condivisione con la cittadinanza di un progetto così importante.
“Noi abbiamo semplicemente proceduto per gradi. Prima abbiamo dovuto indire un bando, ora attendiamo la presentazione dei progetti ed il vincitore. Dopodiché, ho già in mente una grande riunione in cui condivideremo con i cittadini tutti gli aspetti del progetto. Per quanto riguarda l’opposizione, devo dire che fa solo bastian contrario. In passato è successa la stessa cosa per la casa dell’acqua: se ne parlava e la si giudicava già prima che la gara fosse espletata. Stesso copione di quando rifacemmo (“con un’altra amministrazione di cui facevo parte pur non essendo ancora sindaco”) piazza Indipendenza, la vetrina del paese, e vincemmo il premio Teknè per il progetto di riqualificazione, dopo che era successa una rivoluzione in paese. Manifestazioni, palchetti, raccolta firme… sol perché chi era fuori dalla maggioranza doveva dare addosso all’amministrazione. Siamo ciecamente bersagliati per tutto quello che facciamo. Non si può andare avanti in questa maniera. E la cosa più assurda è che vengo attaccato da persone che ripongono in me la massima fiducia quando si tratta di affrontare personali problemi di salute (“sono medico pneumologo”) e che ora non si fidano delle valutazioni che io potrei fare in merito a questo progetto, temendo ripercussioni sulla salute della cittadinanza. Qui i dati parlano chiaro: le emissioni sono ampiamente nei limiti di legge, c’è poco da aggiungere. Come diceva mia nonna ‘esistono gli stolti che parlano senza sapere le cose e quelli che parlano solo quando le conoscono’. Allo stesso modo, mi stupisce il voler entrare nelle gare pubbliche prima che siano concluse. Non è un atteggiamento molto democratico. Sono piuttosto dei disturbi a chi deve assicurare le corrette procedure amministrative”.
La minoranza lamenta però di esser stata esclusa dalle decisioni riguardanti il tempio crematorio e chiede per questo di bloccarne la realizzazione.
“Il nostro piano triennale, comprendente anche il progetto per la creazione del tempio crematorio, è stato approvato in consiglio comunale ed è da tempo alla portata di tutti. Perciò non si sospende assolutamente nulla”.
Lei quindi crede fermamente nel progetto?
“Quando Botrugno è stato indicato come primo nella lista di Comuni candidati ad accogliere il tempio, forte anche e soprattutto della sua ubicazione, mi sono subito attivato ed informato per avere una percezione concreta delle implicazioni. Neanche io ero a conoscenza di cosa significasse per un paese ospitare un impianto del genere. Mi sono informato, come è giusto che faccia un sindaco nel rispetto di ciò che amministra. Ho contattato, in maniera ufficiosa, le autorità competenti che mi hanno rassicurato sul fatto che non vi sarebbero state problematiche come quelle paventate, ad esempio, per l’ambiente. Ed oggi posso consciamente dire di credere in questo progetto e di ritenerlo una grande opportunità per il Comune di Botrugno. Se strada facendo dovessimo accorgerci che non è così, ci fermeremo. Io sono medico pneumologo. La mia professione consiste nel distribuire salute, nei limiti del possibile per mano umana: sarebbe una follia per me arrecare dall’oggi al domani danni ai cittadini. Non mi giocherei mai 37 anni di carriera ospedaliera…”
Lorenzo Zito
Approfondimenti
Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..
di Hervé Cavallera
Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.
Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.
Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.
Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.
Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.
Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.
Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).
È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.
Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.
Festa o vacanza?
Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.
Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.
Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.
È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?
Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.
Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.
Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.
E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.
Approfondimenti
Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte
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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.
I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.
Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.
La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.
Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».
Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».
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Muretti a Secco e Pajare
Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre
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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)
Dario ha fatto della sua passione un lavoro.
Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».
Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».
Qual è in particolare il tuo lavoro?
«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».
In particolare, a cosa ti riferisci?
«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».
Il cemento non lo utilizzi affatto?
«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».
Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?
«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».
E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?
«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».
Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»
Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:
«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».
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