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Approfondimenti

Casarano: 50 sfumature di… crisi

I Commercianti: “Ci hanno abbandonati al nostro destino, il centro storico sta morendo e i negozi continuano a chiudere”
Il vice sindaco Fracasso: “Stiamo ragionando su degli interventi per rivitalizzare il centro città”. Agli esercenti: “Costituite un’associazione che vi rappresenti…”

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Casarano, martedì 10 febbraio: locali sfitti, serrande abbassate, locandine con la dicitura “cedesi attività”, vetrine vuote, in via Dante, via Roma, via San Domenico, via Vecchia Matino, Corso XX Settembre: c’era una volta lo shopping nel centro storico di Casarano…


centro storicoFino a qualche anno fa era un brulicare di persone che, intente ad ammirare le vetrine e a fare acquisti, riempivano e coloravano la città, arrivando da ogni dove. Oggi, complici anche (ma non solo) le congiunture economiche che mettono in difficoltà chiunque, la realtà è ben diversa. Strade deserte, negozi, quelli ancora aperti, desolatamente vuoti, e persino la luce fioca (eufemismo) dei lampioni del centro, perfettamente abbinata alla mestizia che sta sfinendo i commercianti casaranesi, sembra volerci convincere di passeggiare in una città fantasma.


Ornella Maglie (Vanity Fair): “Noi emarginati al centro”


Ornella Maglie

Ornella Maglie


Ornella Maglie, di Vanity Fair Accessories, non lo manda certo a dire: “Altro che centro, siamo stati letteralmente messi ai margini! Alla difficile situazione generale si aggiunge l’emarginazione in cui ci ritroviamo noi del centro storico. Oltre che per le mancanze istituzionali ci ritroviamo da soli, nel vero senso della parola,  perché neanche tra noi commercianti c’è collaborazione, non si riesce a trovare unità di intenti neanche per iniziative che possano in qualche modo riaccendere i riflettori sul centro storico. Allora dico che è inutile criticare la città, le istituzioni, se noi per primi non siamo in grado di fare corpo unico”.


Non esiste un’associazione dei Commercianti, un’aggregazione che vi rappresenti a livello istituzionale. Come mai? “Non riusciamo a collaborare neanche quando si tratta di mettere l’alberello per Natale! Per il primo novembre dell’anno scorso, per fare un esempio, qualcuno proponeva l’apertura nonostante il giorno festivo. La cosa non mi entusiasmava ma, ci fosse stato un raccordo, uno scambio di opinioni, unità di intenti, avrei aperto anch’io. Invece nulla, ognuno per i fatti propri: qualcuno ha aperto, altri no… Lo vogliamo capire o no che, se la gente torna nel centro storico, ne beneficiamo tutti e non solo tizio o caio? Sembra una guerra tra poveri, quasi si abbia paura che il vicino venda qualcosa più di te…”. Ornella tiene poi fede alla sua presentazione (“Non ho peli sulla lingua e dico sempre quel che penso”), indicando quali sono secondo lei le mancanze: “C’è indifferenza, quasi svogliatezza, come se i problemi di cui si discute non ci riguardassero. Ho partecipato ad alcune riunioni dei commercianti, ma sembrava quasi che il bisogno di incontrarsi nascesse solo dall’avvento della festa del Patrono che, tra l’altro, tra strade chiuse per il montaggio delle luminarie, giorni di festa e smontaggio, ci isola ulteriormente per una settimana”. Anche in quell’occasione, ci fosse stata un’associazione unita e forte, forse si sarebbe potuto ottenere qualcosa di diverso: “Pare, però, che non ne siamo capaci. Potremmo almeno incontrarci un giorno al mese per mettere su carta quelle che sono le criticità e poi esporre le nostre istanze come un blocco unico. Invece niente…”. Le difficoltà, invece di avvicinarvi, pare siano ulteriore motivo di distacco: “Forse si pensa che si possa andare avanti da soli, quasi facendo concorrenza ai colleghi, come se ci si volesse accaparrare quello che è rimasto. Che tristezza…”. E che buio! Aggiungeremmo noi. “Vero. L’illuminazione è insufficiente, non certo adatta a strade di un centro storico con negozi. Per quanto mi riguarda, poi, da quando hanno chiuso altre due attività su questa stessa strada sono praticamente al buio”. Ha l’opportunità da queste colonne di rivolgersi direttamente al vice sindaco Fracasso che ha la delega alle attività produttive: cosa gli chiederebbe? “Di convocarci tutti, con tanto di letterina d’invito nominale per ognuno, per un assemblea specifica dove discutere della situazione e porre le basi per un progetto nuovo che parta dalle indicazioni di chi vive dal di dentro la nostra realtà”.


Ornella D’Urso (Il Papavero): “Nostre proposte inascoltate”


Ornella D'Urso

Ornella D’Urso


Proseguendo il nostro giro tra le strade deserte e semibuie del centro storico, entriamo nella storica erboristeria “Il Papavero” di Ornella D’Urso, in via Dante dal 1984. “Le cose negli anni sono cambiate”, dice la titolare, “non possiamo certo dire di vivere l’era più luminosa e non mi riferisco solo all’illuminazione insufficiente. Di associazioni che ci rappresentassero ne abbiamo avute e la sottoscritta è stata anche presidente dell’ACAS, oggi invece non c’è alcuna forma di aggregazione”.


Non riuscite proprio a fare corpo unico? “Qualcuno di noi ci ha provato, ma ogni volta che si chiedeva una riunione o si proponeva qualcosa non si trovava mai un interlocutore, figurarsi una controproposta…”. Perché secondo lei? “Forse per mediocrità. Io sono dell’opinione che se più persone hanno idee diverse, mettendosi insieme ne fanno nascere almeno una eccezionale, ma evidentemente non tutti la pensano come me… Probabilmente anche il momento difficile ha supportato questo modo di fare accentuando individualismo e lassismo. La crisi c’è per tutti ed è proprio questo il momento di mettere in moto il cervello e cercare di capire cosa fare per venirne fuori, tutti insieme”.


L’assessore Fracasso vi chiede esplicitamente di mettere su un’associazione. Lei invece cosa chiederebbe al Vice Sindaco? “L’assenza di un’associazione ci penalizza, ma resta comunque la sensazione di essere lasciati al nostro destino. In passato si svolgevano delle riunioni, se ne parlava, si provava a cercare soluzioni, ora nulla. Anche quando qualcuno di noi ha provato a lanciare delle proposte in Comune è rimasto inascoltato, sarebbe necessaria maggiore considerazione nei nostri confronti. Lavoro da 30 anni in Via Dante, potrebbe essere utile chiedere alla sottoscritta come ad altri, cosa ne pensiamo della viabilità, dei parcheggi, dell’illuminazione e quant’altro. Chi, meglio di noi stessi, può conoscere i problemi che quotidianamente affrontiamo? È vero, l’associazione non c’è, ma ci sono tanti giovani che provano a fare qualcosa, ad unire ed a proporre, gli si dia ascolto”.


Tiziana Livello (Donna & Co.): “Centro storico spento”


CedesiPoco più in là c’è Donna & Co., anche qui come in altri negozi del centro nessun cliente. A Tiziana Liviello chiediamo conferma che il centro storico si stia spegnendo e lei, categorica: “Si è già spento!”. Cos’è che vi impedisce di rivedere la luce? “Un po’ tutto, il problema principale è che mancano i soldi”. In questa situazione vi sentite tutelati, presi per mano dalle istituzioni? “Per niente, l’impressione è che nessuno si preoccupi di noi”.

Come mai non riuscite a mettere su un’associazione che possa rappresentare con forza le vostre istanze? “Ognuno va per conto suo, in queste condizioni non ci sono i presupposti per formare un’associazione, vince sempre l’individualismo”. Le diamo l’opportunità di rivolgersi direttamente all’assessore al ramo, il vice sindaco Fracasso, lei cosa gli chiederebbe: “Nulla, perché non ci credo più”.


Fracasso: “Importante restituire decoro urbano al centro”


Il vice sindaco Antonio Fracasso

Il vice sindaco Antonio Fracasso


Il vice sindaco Antonio Adamo Fracasso, che detiene anche la delega alle Attività Produttive ammette la crisi del centro storico e sottolinea l’assenza di un’associazione di commercianti: “Prima c’era e, seppur a singhiozzo, si relazionava con l’Amministrazione, poi non c’è più stata l’occasione di concertare le azioni da intraprendere”.

A suo avviso quali sono le criticità maggiori? “In primo luogo non c’è più una specificità dei negozi e questo acuisce gli effetti di una crisi generalizzata, per cui il centro storico non ha più quell’appeal che poteva avere in passato. Abbiamo cercato in qualche modo di agevolare i parcheggi in centro, ma non può certo bastare per risolvere il problema, ci vuole una strategia più ampia. Innanzitutto le piazze e l’ambiente dovranno essere attraenti ed accoglienti, lo shopping sarà una conseguenza. Anche la viabilità ha la sua importanza ma a mio avviso bisognerebbe superare l’antica visione che il passaggio delle auto faciliti il commercio, anzi”. Ovvio che un’associazione che rappresenti in maniera forte le istanze dei commercianti potrebbe facilitare l’attuazione di una strategia efficace: “Non solo, anche dare impulso a tutta l’attività, con iniziative particolari che accendano i riflettori su tutti gli esercenti del centro storico. È verificato che la sinergia tra attrattive culturali e esercizi commerciali dà i suoi frutti, però bisogna rendere il tutto appetibile”. Rivolgendosi ai commercianti dalle nostre colonne cosa si sentirebbe di dire loro? “Auspico la nascita di un’associazione stabile che si possa interfacciare con noi. Tanto più la crisi avanza tanto più occorre coesione prima tra loro e poi tra loro e noi”.

Per ora, in centro, tante serrande abbassate e tanti cartelli “vendesi”: la situazione pare davvero critica. “Quello che noi possiamo fare è cercare di dare un decoro urbano al cuore della città. Ecco perché una parte dei fondi destinati esclusivamente ai palazzi storici li abbiamo destinati alle suddette piazze, superando anche le perplessità della Regione. Tutti i nostri sforzi sono mirati a rivitalizzare il centro, soprattutto nelle ore mattutine”.

Intanto il commercio a Casarano vive uno dei suoi momenti più difficili che secondo Fracasso trae le sue origini “nei primi anni duemila con il prosciugamento dei portafogli di tante famiglie dell’area di Casarano e non solo, causato dalla crisi del calzaturiero e dalla perdita di tanti posti di lavoro. Anche il proliferare dei centri commerciali in periferia ha avuto la sua influenza nello svuotare i centri storici. Ecco perché la Regione Puglia ha cercato di premiare alcuni progetti che puntavano alla riqualificazione urbana e noi stiamo puntando alla riqualificazione di Palazzo Elia e le piazze Indipendenza e San Pietro”.


Giulio Spinelli, responsabile SUAP

Giulio Spinelli, responsabile SUAP


Giulio Spinelli, responsabile del SUAP aggiunge: “Stiamo anche cercando di agevolare le aperture di attività nel centro storico, soprattutto quelle ristorative, rendendo più semplice il compito di chi vuole aprire una nuova attività. Ad esempio, nelle autorizzazioni con l’Asl: con il restauro di locali nel centro storico non sempre è possibile ricavare tre bagni, come previsto dalla normativa. Stiamo provando a regolamentare il tutto cercando di rendere meno complicata ogni nuova apertura”.


Fracasso anticipa che “stiamo rivisitando tutto ciò che riguarda il commercio nella nostra città. In particolare stiamo pensando di spostare il mercato settimanale del martedì da Contrada Botte. Avevamo un finanziamento della Regione per la dislocazione del mercato in un’area mercatale mediante project financing. Quel progetto, oltre alla realizzazione della nuova area mercatale, prevedeva anche la riqualificazione delle Case di edilizia popolare e del parco periurbano. Sono sorti problemi di espropri e di dislocazione del mercato e si è continuato solo con le case IACP e il parco per cui presto inizieranno i lavori. Lo spostamento del mercato settimanale è solo rinviato: dobbiamo mettere fine alle criticità di Contrada Botte, quella è un’arteria importante della città che il martedì rischia la paralisi. Abbiamo anche approvato un progetto, ora al vaglio della Regione, per il prolungamento di via Poerio, quindi il collegamento con viale Cisternella e la stazione per permettere uno sfogo verso la circonvallazione. Stiamo, poi, cercando di regolamentare gli spazi per gli ambulanti affidando ad ognuno di loro, mediante bando, una postazione fissa ed evitare attività estemporanee che danneggino i veri commercianti. Stiamo anche valutando l’opportunità di tenere un mercato notturno, da maggio fino a settembre, nel centro storico. Per ora è un’idea ma stiamo cercando di portarla avanti”.


Giuseppe Cerfeda


Approfondimenti

Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..

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di Hervé Cavallera

Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.

Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.

Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.

Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.

Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.

Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.

Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).

È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.

Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.

Festa o vacanza?

Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.

Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.

Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.

È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?

Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.

Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.

Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.

E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.

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Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

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