Approfondimenti
Grappoli di reminiscenze, senza tempo né confini
A Marittima: qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese
In una recente e differente narrazione, traendo spunto dal casuale incontro con due turisti/ospiti provenienti da S. Francisco, USA, mi soffermavo diffusamente su Marittima e più esattamente sul Rione dell’Ariacorte, dove sono nato e, fra l’altro, annotavo: «Attualmente, con il mio paesello, e specialmente con i residenti, non intrattengo più i rapporti d’intimità e consuetudine viscerale a trecentosessanta gradi, che hanno, invece, caratterizzato le stagioni della mia fanciullezza, adolescenza e prima giovinezza».
Non v’è, invero, contraddizione fra l’anzidetta puntualizzazione e quanto sto per raccontare qui. Semmai, la cronaca freschissima che segue, può considerarsi un’eccezione rispetto al ricordato e consolidato stato d’interazione, in termini complessivi, fra me e la località natia.
Qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese, Costantino C., il quale vanta e si porta appresso, con disinvoltura, ben novantotto primavere già valicate, per di più guidando ancora, quando occorre, o un’autovettura o un motofurgone “Ape”.
Conosco la citata persona, è proprio il caso di dirlo, da quando sono nato e, lui, giovanottino, abitava, insieme con la sorella Maria, presso la nonna Costantina – i loro genitori erano mancati prematuramente – nell’Ariacorte, a cinquanta metri di distanza da casa mia.
Insomma, a Costantino C., mi lega un’intensa familiarità, sono edotto di tutte le vicende della sua esistenza, da alcuni lustri, in particolare, ho modo di incontrarlo sovente, giacché possiede un giardino, con annesso fabbricato (da poco, l’ha donato ad alcuni nipoti che vi stanno eseguendo importanti opere di ristrutturazione), situato proprio dirimpetto alla mia villetta della “Pasturizza”.
Arrestata d’istinto la marcia del ciclomotore, mi sono avvicinato e seduto accanto, chiedendogli, come approccio, notizie circa lo stato dei lavori edili.
Pochi minuti dopo, si è accostato a noi un altro compaesano, Santo C., appena più giovane di Costantino, e i due, all’unisono, come del resto mi aspettavo, sono immediatamente passati a rievocare un episodio assai lontano, sia come datazione, sia come luogo di svolgimento, evidentemente, però, rimasto indicativo e impresso nella mente, fatto in cui, insieme con loro, io stesso mi ero, in certo qual modo, trovato coinvolto.
Sarà stato il 1963 o il 1964 e lavoravo in banca, a Taranto, da tre anni circa, svolgendo le mansioni di segretario, oggi si dice assistente, di un vicedirettore settorista, il quale, per chiarire, gestiva un determinato portafoglio di clienti.
Insieme con il citato funzionario, compivo spesso visite agli utenti, sia per mera cortesia, sia e soprattutto per ricognizioni dirette sulle loro aziende e le loro attività.
Un giorno c’eravamo portati a domicilio di un operatore agricolo (grosso proprietario di terreni e produttore di vino e olio) di Francavilla Fontana, da molto tempo cliente affidato, vuoi con linee di credito a carattere ordinario e continuativo, vuoi sotto forma di anticipazioni su giacenze di vino e olio, nelle more della loro vendita.
Guarda caso, io non ne ero minimamente a conoscenza, nell’azienda dell’operatore in discorso, da parecchi anni, prestavano attività, sia pure stagionalmente, Costantino e Santo, unitamente ad altri due marittimesi, Peppino e Vitale.
Tutti i già menzionati, quindi, persone di massima fiducia dell’imprenditore francavillese, di casa, alla stregua di famigliari.
Orbene, il mio superiore si era determinato a recarsi nell’azienda di tale cliente, diciamo così, per accertarsi che esistessero effettivamente le giacenze di prodotto su cui era stato da poco concesso un finanziamento e, quindi, si era premurato di dare anche una sommaria occhiata alle relative cisterne.
Sennonché, giusto lì, come ebbero a confidarmi in seguito i miei concittadini, aggiungendo qualche abbozzo d’ilarità, si nascondeva un trucchetto, alquanto rudimentale e, tuttavia, valido a far apparire qualcosa che, in realtà, non esisteva.
E, però, anch’io, dall’altra parte, cioè dall’interno della banca, avevo avuto modo di accorgermi che gli amici marittimesi, o, meglio, le loro firme, erano talora “utilizzati” dal datore di lavoro, per agevolare alcune sue operazioni di finanziamento da parte della banca.
Certo, stagioni non solo antiche ma, specialmente, dai contenuti totalmente diversi, allora la fiducia e la parola erano una cosa seria, nel lecito e anche ai limiti della norma o borderline per stare al linguaggio presente: così abbiamo, l’altro giorno, commentato concordemente, sulla panchina della piazza di Marittima, Costantino, Santo ed io.
Di lì a poco, è arrivato ad aggregarsi alla comitiva un ennesimo “ariacortese”, Costantino N. e, quasi contemporaneamente, Uccio N., geometra in pensione e, fuor d’ogni dubbio, compaesano d.o.c., non essendosi mai allontanato, durante i suoi ottantun anni, dalla natia Marittima. A questo punto, a beneficio di quanti non fossero a conoscenza, mi soffermo su un breve inciso: fra i nomi maggiormente diffusi nella località, ricorrono quelli di Vitale e Costantino o Costantina, a motivo che, collegando i comuni mortali ai santi, S. Vitale, cavaliere nell’esercito romano ai tempi di Nerone, nato a Milano e martirizzato a Ravenna, è il protettore di Marittima, mentre, a compatrona, è stata da vecchia data proclamata la Vergine Maria Santissima di Costantinopoli o Madonna Odegitria.
Costantino, come ho avuto modo di accennare anche in precedenza, faceva parte, penultimo nato, di una famiglia numerosa, ma soprattutto antesignana e allargata, per vicende naturali, in senso laterale o di discendenza.
Difatti, la padrona di casa, in altre parole sua madre, Rosaria, proveniente da Andrano, reduce dal primo matrimonio nel corso del quale le erano nati due figli, Andrea e Giuseppa (Pippina), rimasta vedova ancora giovane, aveva sposato in seconde nozze il marittimese Ciseppe (Giuseppe), reduce, anche lui, da una precedente unione, già padre di tre figli e, parimenti, rimasto vedovo anzitempo.
Rosaria e Giuseppe, novella coppia, procrearono ulteriori quattro figli, Pompilio, Vitale, Costantino e Concetta.
Sì che, a un certo momento, venne a formarsi un nucleo o f0c0lare di undici persone, fra i due coniugi e i nove discendenti arrivati dall’accoppiata di letti.
Molti i ricordi e le annotazioni snocciolati, approfittando della presenza di Costantino, riguardo ai membri della famiglia di Rosaria e Giuseppe ‘u fusu.
Alla fine degli anni Trenta o agli inizi del decennio successivo, la scomparsa di Giuseppe, a causa di una rovinosa caduta mentre era intento a fissare, a un gancio del soffitto, un chiuppu (una sorta di grosso casco, facendo riferimento alle banane) di tabacco già essiccato.
Nel 1945, il matrimonio di Pippina nel canonico abito bianco, di cui, lo scrivente, serba perfettamente il ricordo.
Nel 1947, esattamente il 22 gennaio, le nozze di Andrea (con Valeria), in un giorno in cui, Marittima, registrò il particolarissimo fenomeno di un’abbondante nevicata.
Nel 1951, un’improvvisa e brutta traversia, fortunatamente finita bene, in capo a Vitale, sotto forma di un’infezione da tetano a un piede (precisa, adesso, Costantino, che, all’epoca, lui era assente da Marittima per il servizio militare in Marina, imbarcato su un dragamine di stanza alla Spezia). Dopo, infine, seri problemi agli occhi per l’altro figlio, Pompilio, invero mai risolti.
A un dato momento, Costantino, seduto nel gruppo e rivolgendo lo sguardo a Uccio N. che gli stava accanto, ha ritenuto di richiamare i legami di parentela fra lo stesso Uccio e me (le rispettive mamme, Nina e Immacolata, erano cugine di primo grado, figlie di due sorelle, Cristina e Lucia). Aggiungendo, inoltre, che lui medesimo, a seguito del matrimonio, si era apparentato con l’ex geometra, posto che il suocero Giuseppe P. (in vita, operatore ecologico, attacchino e necroforo del Comune di Diso), era, a sua volta, primo cugino del padre di Uccio, Pippi ‘u scanteddra o mesciu Pippi ‘u barbieri, la cui madre, Pasqualina M. detta Nina, era sorella della genitrice di Giuseppe P., Maria Donata M.
I conti degli accostamenti fra parentele o famigliarità quadrano perfettamente, a prova di dati anagrafici e/o di battesimo.
Uccio N., il quale, al momento di aggregarsi, aveva domandato, sorridendo, se, in quella circostanza, fossi io a tenere banco nel gruppo, non ha, poi, rinunciato a intervenire, dicendo la sua a proposito di una sfaccettatura straordinaria insita nel desco domestico del suo nonno paterno, Vitale N. ‘u fiore.
Intorno a quel tavolo da pranzo (parolone esagerate), occupavano posto, ha raccontato Uccio, suo nonno e sua nonna, insieme con un paio di ascendenti e i loro sei figli (cinque maschi e una femmina) e, già così, si arrivava a dieci persone. Inoltre, quasi tutti i giorni, specialmente la sera, si aggiungevano sette nipoti di Pasqualina M., detta Nina, figli di due sue sorelle passate prematuramente a miglior vita e, quindi, rimasti orfani.
Diciassette “avventori”, dunque, alla fine, a intingere il cucchiaio nell’unico piatto posto al centro del tavolo, che doveva servire per l’insieme di commensali, con conseguenti difficoltà, per ciascuno, a far arrivare il cucchiaio alla minestra.
Dire che, l’appetito era tanto e non esistevano altre cose da mangiare, tranne, al caso, un tozzo di frisella o una piccola manciata di fichi secchi.
Eppure, sembra assolutamente inverosimile, si sopravviveva e, mette conto di porre l’accento, negli stati d’animo della gente, albergava ben più serenità di adesso.
Rocco Boccadamo
Approfondimenti
Una volta i salentini emigravano, ma poi tornavano
Andata e ritorno. Come tanti Ulisse che dopo numerose peripezie tornavano alla loro Itaca. Per costruire, edificare, migliorare sé stessi e il paese, per una vita migliore per tutti
Un problema che riguarda il nostro presente è una massiccia immigrazione che in questi ultimi anni ha inciso non poco sulla vita delle nostre città ed è un fenomeno che ci ha colti quasi inaspettatamente perché in fondo, specialmente nel Meridione, ci si sentiva una terra di emigranti e non di “accoglienti”.
Sotto tale aspetto gli studiosi sono d’accordo a dividere la vicenda della emigrazione italiana, dall’Unità (1861) ad oggi, in tre periodi: la grande emigrazione che arriva sino all’avvento del fascismo; l’emigrazione europea che va dai primi anni ’50 alla fine degli anni ’70; la nuova emigrazione che inizia col secolo corrente.
LA GRANDE EMIGRAZIONE
La prima emigrazione, causata dalle condizioni miserevoli in cui viveva buona parte della nazione, peraltro analfabeta, riguardò uno spostamento dei nostri verso altri continenti come l’Africa del nord, ma soprattutto l’America settentrionale e meridionale.
Il fascismo rallentò in parte il processo di emigrazione anche per le numerose opere pubbliche del periodo che furono peraltro utili per impegnare una notevole quantità di manodopera.
Con il dopoguerra, ci fu una consistente emigrazione verso Paesi europei come Germania, Svizzera, Belgio, Francia. L’emigrazione del presente – certamente minoritaria come numero complessivo – riguarda per lo più giovani laureati che cercano una maggiore fortuna all’estero.
Si tratta di una storia complessa che meriterebbe una lunga trattazione, ma chi ha potuto osservare la seconda fase, quella appunto dell’emigrazione in Europa, non può che far venire alla mente particolari annotazioni.
Se l’emigrazione verso le Americhe, infatti, rappresentò per gli italiani del tempo un distacco definitivo, tanto che oggi molti noti personaggi statunitensi si trovano a “scoprire” antenati nella nostra Penisola, l’emigrazione europea, pur scaturita dalle difficoltà economiche derivate dalla guerra, ebbe da subito la caratteristica di uno spostamento relativamente temporaneo.
Innanzitutto ci si spostava in un continente di cui ci si sentiva di far parte e non vi era l’oceano a rendere ben difficile il ritorno, anche temporaneo, per rivedere e salutare familiari e amici; era inoltre una partenza vissuta non con lo spirito d’avventura, sia pure sofferta, come accadeva alla fine dell’Ottocento o ai primi del Novecento, ma con la certezza di un inserimento nel mondo del lavoro che avrebbe consentito quanto meno una tranquillità economica e quindi una serenità familiare.
NEL DOPOGUERRA
Stati come la Svizzera e la Germania, in effetti, erano disposti ad accogliere nostri conterranei in funzione del loro bisogno esistente di manodopera. Quindi l’inserimento nel mondo del lavoro era garantito.
D’altra parte erano gli anni del boom economico e vi fu una forte emigrazione da quella parte della Penisola prevalentemente agricola (il Mezzogiorno appunto) non solo all’estero, ma anche verso le città italiane più industrializzate.
Basti ricordare il cosiddetto “triangolo industriale”, ossia l’area compresa tra Torino (sede della Fiat), Milano (con tutto il suo sviluppo immobiliare, industriale e commerciale) e Genova (il grande porto commerciale).
In tale dinamica, apparve subito chiaro che i rapporti con i paesi di origine erano mantenuti. Non solo: la stabilità economica acquisita all’estero (ma anche in alta Italia) consentiva di poter mettere da parte del denaro in modo da aiutare i familiari che erano rimasti nel paese natio o da utilizzare per loro lecito profitto in vista di un ritorno.
Chi ormai non è più giovane ricorda molto bene tanti emigrati che, come laboriose formiche, raccoglievano denaro che poi investivano nella propria terra per costruirsi una casa ove risiedere una volta tornati dall’estero o dall’Italia del nord.
Il paese di origine rimaneva un po’ come il luogo della nostalgia di una giovinezza lontana e degli affetti troncati, un luogo dove trascorrere gli anni una volta pensionati.
E si può constatare l’ampliamento dei nostri paesi con la nascita di nuovi quartieri, anche se con una urbanistica non sempre soddisfacente in quanto ognuno ha edificato su ciò che aveva e le amministrazioni comunali non hanno sempre adeguatamente considerato lo sviluppo della viabilità in funzione della crescita dei mezzi di comunicazione.
Sotto tale profilo, spesso è mancata una visione d’insieme dell’espansione delle varie cittadine, ma questa è un’altra storia e non riguarda gli emigranti, bensì gli amministratori.
Quello che va ricordato è invece il forte attaccamento alla terra natale, sì da ritornarci non solo periodicamente, a Natale, a Pasqua e durante le ferie estive, ma al termine del proprio percorso lavorativo. E c’era in quei volti un senso di soddisfazione.
IL RICHIAMO DELLA PROPRIA TERRA
Erano partiti poveri e molte volte senza casa ed ora tornavano in una casa di loro proprietà; avevano del denaro e una pensione dignitosa.
spesso utilizzavano, per darsi delle arie umanamente comprensibili, un tedesco o un francese approssimativi per far vedere a coloro che non avevano mai viaggiato che essi, invece, conoscevano il mondo e le lingue.
Ma quello che soprattutto può oggi sorprendere è che tornavano a voler essere quello che sentivano di essere: dei cittadini salentini, che dovevano risiedere nel proprio paese di nascita.
In questo si rivelava un attaccamento alla propria origine che può essere spiegato particolarmente dalla natura degli affetti.
Altrove avevano avuto quella fortuna economica che il paese natale non aveva loro consentito, ma essi percepivano che la loro origine e il senso della loro esistenza erano proprio in quel contesto da dove erano dovuti espatriare e a cui non potevano sottrarsi: erano come tanti Ulisse che dopo numerose peripezie tornavano alla loro Itaca.
E tornavano per costruire, per edificare, per migliorare sé stessi e il paese: per una vita migliore per tutti. E si mandavano i figli a scuola, per far loro conseguire un diploma o una laurea.
Con il ritorno degli emigrati i paesi crescevano e in vario modo si arricchivano, e le generazioni si ritrovavano e si intesseva e si rafforzava una comunità.
Ed è una lezione che oggi, in un tempo in cui spesso si cede al proprio individualismo, non bisogna in alcun modo dimenticare, bensì sottolineare se non si vuole svanire nel dimenticatoio di una realtà senza storia e senza affetti.
Alessano
«È stata una lunga avventura»
Emigranti, il forum. Uccio Negro di Montesardo. Per tutti “il professore”. Gli inizi in fabbrica, il lavoro in consolato e alla scuola italiana. Poi la politica e l’abilità di mettersi nei guai ed uscirne
La storia di Antonio Negro di Montesardo (Alessano) si presterebbe bene alla scrittura di un copione per un film avvincente.
Gli ingredienti ci sono tutti: avventura, thrilling, sliding doors e persino una certa vena di comicità per come il destino si è divertito ad incastrare gli eventi della sua vita.
SOLO UN VIAGGIO DI PIACERE
Ma andiamo per ordine.
Antonio, anzi Uccio, come lo chiamano tutti, è del 1947: «Era il 1968, avevo 21 anni, quando un amico mi invitò ad accompagnarlo a Basilea, in Svizzera. Accettai ma doveva essere solo un viaggio, l’avventura di un giovanotto. Nei miei programmi, dopo aver accompagnato il mio amico, sarei tornato a casa. Era d’inverno e c’era la neve. Mi feci lasciare a Zurigo dove avevo dei parenti. Una volta lì, visto che c’ero, provai a lavorare come tornitore in una fabbrichetta, trovai un letto in un dormitorio ed ottenni il permesso di soggiorno stagionale. Scoprii presto che in quella fabbrica lavoravano anche altri di Montesardo. Io, però, non durai più di un paio di mesi perché la mattina… non riuscivo ad arrivare in orario! E loro sugli orari (sorride) sono molto precisi».
AL CONSOLATO
«Così mi licenziai», prosegue, «ed iniziai a fare la vita da clandestino. Situazione prolungatasi per almeno sei mesi, durante i quali dovevo nascondermi nelle baracche o dove capitava. Durante quel periodo ebbi modo di conoscere un po’ di gente. Ma, vedi com’è il destino, nonostante la mia clandestinità, fui assunto al Consolato Generale d’Italia di Zurigo! Così ho lavorato… clandestinamente al Consolato nell’ufficio passaporti per gli italiani. Agli altri facevo il passaporto ma io non potevo averlo».
All’inizio Uccio, per recarsi al lavoro, si fece prestare un vestito «decente»: «Il Console seppe che ero diplomato magistrale con il titolo di “Maestro”, così fui preso per tre mesi, il periodo di prova per poter fare da front office con gli italiani».
E qui parte un altro aneddoto: «Gli italiani in età di leva obbligatoria, con regolare permesso stagionale o annuale, che dovevano tornare in Italia per pochi giorni e poi rientrare per lavorare, dovevano avere l’autorizzazione del consolato, altrimenti alla frontiera la polizia li beccava e li mandava a fare il militare. Oppure, li denunciava come disertori. Gli altri impiegati su questo erano severissimi e, se anche la minima cosa non quadrava, negavano il visto. Io, invece, lo concedevo sempre e a tutti, perché mi rendevo conto dei sacrifici che stavano affrontando da emigrati per dare da mangiare alla famiglia. Avrei mai potuto rovinarli, mandandoli a fare il servizio di leva? Tanto che poi avremmo fatto una battaglia con il Ministero della Difesa italiana proprio per tutelare gli italiani che lavoravano oltre confine ed erano chiamati per il servizio militare».
Tornato in Salento, a distanza di 30-40 anni, Uccio ha «incontrato uno di quelli che veniva in Consolato per il visto. Mi ha raccontato che, per non perdere tutti la giornata di lavoro, mandavano in avanscoperta uno di loro a cui pagavano la benzina e questi avrebbe telefonato in un determinato orario ad un ristorante per dire ai compaesani chi c’era in ufficio. Se c’ero io sarebbero venuti, altrimenti avrebbero rimandato».
Nel periodo trascorso in Svizzera da clandestino, Uccio è stato «beccato due volte dalla polizia. La prima volta mi hanno preso per la collottola e messo sul treno per l’Italia. Arrivato a Chiasso, però, sono sceso, ho cambiato e binario e risalito sul treno che andava in direzione opposta. La seconda volta invece ero con degli amici, tra cui uno svizzero che conosceva la mia situazione. Arrivarono degli agenti in borghese e cominciarono a parlare con il loro connazionale. Lo informarono che erano lì per me e che avrebbero dovuto impacchettarmi e spedirmi in Italia: quel mio amico perorò la mia causa, spiegando agli agenti che io gli avevo fatto tanti favori e chiese loro di farne uno a me. Così offrì loro delle birre e questi andarono via, come se non mi avessero mai trovato».
COME DIVENNI “IL PROFESSORE”
In questo modo Uccio poté continuare la sua attività al Consolato. Finchè non ebbe a sapere che alla scuola italiana di Zurigo assumevano del personale: «Lo riferii al Console, feci domanda e fui assunto. Mi fecero il permesso e, da lì, iniziò anche la mia attività sociale, soprattutto da sindacalista e attivista politico nel Partito socialista».
AL FIANCO DEI CILENI
Da quel momento ha iniziato a frequentare determinati ambienti, compreso “Il Cooperativo”, «il ristorante dove andavano a mangiare gli esuli socialisti, dall’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, fino ad Ignazio Silone (ex membro dell’Assemblea costituente della Repubblica italiana, scrittore, giornalista, politico, saggista e drammaturgo), che ho avuto la fortuna di conoscere di persona».
Altro aneddoto della sua storia di sindacalista in Svizzera: «Nel 1973 ci fu il golpe di Pinochet in Cile ed anche nella Confederazione elvetica arrivarono cileni in fuga dal loro Paese. Come dirigente del Partito Socialista Italiano, custodivo le chiavi dei locali della Federazione, nei pressi della stazione di Zurigo. Un compagno dirigente mi avvertì che mi stavano cercando dei cileni. Gli dissi di dare loro il numero di telefono di casa mia. Mi chiamarono e, tra spagnolo e italiano, combinammo un incontro. Da premettere che la Svizzera concedeva accoglienza ai profughi esiliati politici, ma vietava loro di fare politica. Nonostante questo, la delegazione cilena mi chiese un posto sicuro dove incontrarsi segretamente. In pratica volevano ritrovarsi nei locali della Federazione. Dopo un’iniziale perplessità mi confrontai con Angelo Ferrara, amico carissimo che era anche il segretario del partito. Lui non ebbe dubbi: dovevamo dargli il locale. Mi raccomandai che la cosa fosse discreta e indicai loro la cassetta dove avrei lasciato la chiave che “ufficialmente” non avevo mai dato loro. Dopo 2-3 mesi, era inizio estate del 1974, i cileni mi confidarono la loro intenzione di uscire allo scoperto e fare politica alla luce del sole. Per questo volevano che io prenotassi per loro, ma a nome mio, una grande sala. Pensatoci su, mi ricordai di un compagno, Saverio Fortunato, originario di Cosenza ma cresciuto in Svizzera, noto per la sua la capacità di sparire dalla circolazione per lunghi periodi. Lo contattai e gli dissi di “evaporare” fino a quando le acque non si sarebbero calmate. Andai alla Casa d’Italia di Zurigo, la scuola italiana dove insegnavo, e prenotai la sala grande per il 27 giugno a nome di Saverio Fortunato, dicendo all’usciere che serviva ai giovani federalisti di cui il mio amico era segretario. Coi cileni mi raccomandai di “non fare casini” (testuale, NdA). La sera del 27 giugno, un’oretta prima dell’orario concordato, feci un giro in zona e non ci misi molto a scoprire che il posto pullulava di polizia sia in borghese che in divisa. Già sapevano tutto!
Intanto i cileni, arrivati da tutta Europa, diedero vita alla loro assemblea. Nel frattempo, l’usciere mi chiamò avvertendomi che il Console Generale mi voleva al telefono: “Professore”, mi disse allarmato, “sa dov’è Saverio Fortunato? Lo sta cercando la polizia!”. Cascando dalle nuvole, gli promisi che, se avessi saputo qualcosa, lo avrei avvertito. All’indomani i giornali di tutto il Mondo titolavano a nove colonne “Cileni Liberi”. La stampa mondiale, non solo svizzera, dopo quella assemblea, si era schierata con loro. E questa cosa, tutt’oggi mi riempie di orgoglio».
IL CIRCOLO DEGLI EMIGRANTI
Tornato in Italia, colui che ancora tutti chiamano professor Uccio Negro, ha smesso di fare attività politica ma non di spendersi per gli altri, che oggi sono gli ex emigranti. È socio fondatore e componente del Direttivo del Circolo emigranti ed ex emigranti di Alessano e Montesardo (attivo dal 2017, presidente Cosimo Martella e un centinaio di associati, condivide la sede con l’Apa, Associazione per Alessano, con cui collabora nella promozione della cultura) e, in questa veste, rilancia l’iniziativa già avviata in Veneto ed Emilia-Romagna: «Alcune Regioni hanno approvato una legge che prevede l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado della storia dell’emigrazione italiana nel mondo. Vanno bene le nostre visite alle scolaresche ma, nonostante l’impegno delle associazioni, questo non può bastare».
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Approfondimenti
«Negli anni ’70 il clandestino ero io»
Emigranti, il forum. La testimonianza di Antonio Vantagiato di Ugento. La dritta: «Appena arrivano i doganieri, scendi dal treno e risali sul primo vagone»; «Un escamotage che faceva di me un’emigrante clandestino agli antipodi»
Ci sono storie che meritano di essere raccontate perché sono parte della storia di ognuno di noi e ripercorrono usi, costumi e necessità delle epoche vissute.
Come quella di Antonio Vantagiato, 73 anni oggi, per tutti il reporter di Ugento.
«Era il 1958», racconta, «quando mio padre passò a miglior vita. Lasciò la mamma con tre figli da crescere. Io avevo appena otto anni. Mia madre lavorava nei campi ed io dovetti occuparmi di mio fratello piccolo. È stata molto importante la figura di mio nonno (Cavaliere di Vittorio Veneto), anche grazie a lui non ci è mai mancato alcunché».
«Finita la scuola, quella che le circostanze ci consentivano di frequentare», prosegue perdendosi nei ricordi, «a soli 11 anni portai a casa la mia prima paga: 150 lire per una giornata di lavoro! Non dimenticherò mai l’emozione di mia madre…».
Crescendo, si doveva decidere che fare della propria vita. E, quasi sempre, in quegli anni, la scelta era obbligata, emigrare: «Avevo 17 anni, un mio caro zio, già da anni impegnato a lavorare all’estero, mi portò con sé in Svizzera».
Il viaggio non fu propriamente lineare e qui casca l’aneddoto: «Arrivati alla frontiera di Chiasso, mi diede la dritta: “Appena arrivano i doganieri, scendi dal treno e risali sul primo vagone in testa prima della locomotrice”. Un escamotage che faceva di me un’emigrante clandestino agli antipodi».
Non fu tutto rose e fiori neanche la permanenza oltralpe: «Tre mesi di duro lavoro nei cantieri per non parlare delle baracche gelide nelle quali eravamo accampati; per avere il gas per cucinare si introduceva una moneta nella apposita fessura che faceva scattare l’interruttore meccanico e si poteva avere a disposizione per un determinato tempo il necessario al fabbisogno. Se non avessi avuto spiccioli non avrei mangiato. A fine stagione, dopo tre mesi di lavoro, comunque, portai a casa 120mila lire. Per non farmi derubare durante il viaggio, cucii il denaro nelle tasche. L’anno dopo feci lo stesso».
Parallelamente al lavoro estivo Oltralpe, nel 1967 e nel 1968, durante l’inverno, ad Ugento, ha frequentato il Professionale di Radio Tecnico. Circostanza che ha cambiato la sua vita: «Grazie ad un accordo trasversale tra la Germania e l’Ufficio del Lavoro provinciale, i migliori poterono andare a lavorare in Germania. Nel 1970, dopo aver fatto le visite mediche a Verona, mi spedirono a Baknang, nel land del Baden-Württemberg. Fui assunto da una multinazionale che produceva apparecchiature per trasmissioni intercontinentali commissionate dalla Nasa. Nel 1972 mi trasferii a Norimberga per lavorare con la Siemens. L’anno dopo sono andato alla Grundig, dove si producevano apparecchiature di intrattenimento, in particolare le primi Tv a colori. Dopo qualche tempo, mi trasferirono nel reparto dove si producevano i primi videoregistratori. Partecipai ad un corso di formazione e mediante un concorso interno, diventai responsabile delle apparecchiature di controllo. Restai a Norimberga fino al 1986».
Poi il ritorno nel Salento e, dopo una breve pausa di riflessione, iniziò la sua avventura da reporter… d’assalto, in una televisione locale che in quegli anni andava per la maggiore.
Nel corso delle sue scorribande, oltre a portare a termine i servizi ordinari commissionati dall’emittente per cui lavorava, è stato protagonista di due scoperte archeologiche («Il Dolmen di Spongano e la Cava messapica a Diso»), riuscì ad immortalare una Supernova (esplosione stellare) poi andata in onda al telegiornale.
Però, non ha mai dimenticato la sua esperienza lontano da casa, infatti ha scritto, prodotto e girato il cortometraggio (protocollato alla Regione Puglia), dal titolo “L’Emigrante”, che racconta il dramma di una famiglia «quando il marito partiva per lavorare all’estero».
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