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Ciolo – Leuca: da qui non si passa! O forse sì…

Strada interrotta da dicembre per presunto pericolo smottamento falesia. I ristoratori: “Ci stanno rovinando!”

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Il Salento finisce qui”: lo dichiara sconsolato Gioacchino Peragine, per tutti Nino, titolare del noto ristorante “La Passeggiata”.


Siamo proprio in de finibus terrae, tradotto letteralmente “le estremità della terra”, che come noi ben sappiamo vuol dire il sud del sud. L’agro è quello di Gagliano del Capo, anche se alle porte di Santa Maria di Leuca, a due passi dal mare in un tratto di costa meraviglioso. Tratto di costa, però, negato a tutti dallo scorso dicembre, perché sia venendo da Leuca che scendendo da nord, all’altezza del Ciolo, la Litoranea è interdetta da transenne conficcate nell’asfalto e “divieti di circolazione veicolare e pedonale”, per un presunto pericolo “smottamento falesia”; tradotto: rischio di caduta massi.


Detto che il costone roccioso allontanatisi dal Ciolo sparisce e quindi non si comprende l’allargamento del divieto fino a Leuca, lascia anche assai perplessi la presenza di manifesti a firma delle attività che esercitano sul quel tratto di strada (oltre a “La Passeggiata” anche il famoso “Gibò”) che invitano a passare comunque nonostante i divieti perché l’esercizio “è aperto e raggiungibile”; così come “Lo Scalo” che è addirittura a Novaglie, quindi fuori dal tratto di strada interrotto, avverte che il ristorante “è raggiungibile dalla Litoranea”.


Gioacchino Peragine, detto Nino


Per gli esercenti è un modo di salvare il salvabile da una situazione che si protrae da otto mesi, che ritengono “assurda e immotivata” e che li ha portati a più che dimezzare i loro affari. “Son venuti di notte a chiudere la strada”, ricorda il titolare de “La Passeggiata”: “Ho chiesto a chi stava guidando i lavori se avessero un’ordinanza, mi ha risposto che la Provincia aveva dato questa indicazione e che loro eseguivano. Così mi sono recato al Comune di Gagliano del Capo e lì mi hanno detto che stavano intervenendo per dei lavori di messa in sicurezza su un masso in località Ciolo per i quali erano arrivati i soldi della Comunità europea. Mi hanno assicurato che il 31 marzo i lavori sarebbero teriminati: siamo a fine luglio…”.


Ciò per cui Nino Peragine non riesce proprio a darsi una spiegazione è la chiusura sin da Leuca visto che “il masso che si presume pericoloso è addirittura al Ciolo. Il risultato è che si sono più che dimezzati sia il fatturato che la forza lavoro (“Avevamo 15 dipendenti, ora sei che facciamo ruotare”). Ai miei clienti dico: su questa strada non c’è alcun pericolo, potete venire tranquillamente. Ma è chiaro che non ho la possibilità di parlare con tutti”. Poi definisce “persone di buon senso gli uomini delle forze dell’ordine che non intervengono per fermare le persone che transitano nonostante i divieti”. Nino è proprio arrabbiato: “Questa gente ci vuole aiutare o inabissare? Gabellone (il presidente della Provincia, NdR) a suo tempo ha preso i nostri voti compreso quello del sottoscritto: ed ora come ci ricambia? Con queste puttanate! Non sarebbe bastato mettere divieto di balneazione al Ciolo e al massimo chiudere la scalinata invece che chiudere tutta la litoranea? Il signor presidente della Provincia si metta una mano sulla coscienza e pensi a chi deve lavorare per sbarcare il lunario. Ha un’unica soluzione: riapra quella strada!”. Il ristoratore poi riferisce anche che il Comune di Gagliano, “a quanto mi hanno riferito avrebbe chiesto alla Provincia di spostare il divieto per lasciarmi lavorare, son passati sei mesi ma non è cambiato nulla”. Secondo Peragine “è una farsa con i turisti che arrivano e ci prendono in giro per una situazione assurda, salvo riderci alle spalle quando vengono informati che tutto ciò dura da dicembre dell’anno scorso”. A proposito di farsa, Nino fa notare: “Ci sono divieto di transito e di balneazione eppure il Ciolo è sempre pieno di gente e le macchine dei locali circolano lo stesso… ma a che gioco giochiamo? A dirla tutta, poi secondo quel che si tramanda oralmente da generazioni e da quello che agli anziani hanno raccontato i loro nonni, quel masso è sempre stato così: perché ora dovrebbe cadere? Secondo testimonianze dirette, qualche hanno fa hanno anche provato a farlo brillare con dell’esplosivo ma il masso non ne ha voluto sapere di spostarsi”.


Un altro clamoroso paradosso viene fuori dalle parole del ristoratore: “Ad un certo punto gli addetti non passavano più a ritirare la spazzatura. Ovviamente sono stato in Comune a fare le mie rimostranze, anche perché le tasse debbo pagarle regolarmente, e il servizio è ripreso”. E già, ma è pericoloso transitare su quella strada o no? La conclusione di  Peragine è una riflessione amara: “I nostri politici si riempiono la bocca di turismo e Salento, già ma quale Salento? Otranto? Gallipoli? A noi hanno saputo solo chiuderci la litoranea, evidentemente il Salento finisce qui”.

Se a sud si piange, a nord (si fa per dire) certo non si ride. Siamo arrivati al Ciolo, proprio a ridosso del Ponte c’è il ristorante “L’Incanto” e anche a queste latitudini l’incazzatura non è da meno.


IMG_1382Così Pasqualina Ferilli: “Per quanto ci si sforzi non si comprende la logica che ha portato alla chiusura della strada da dicembre ad oggi. Hanno i soldi da tempo, perché non fanno ciò che devono fare? Giocano con il nostro destino e denotano una superficialità a dir poco irritante. Con la strada transennata forse la gente del posto passa lo stesso, ma i turisti che vengono dal nord o ancor peggio gli stranieri, fanno marcia indietro dopo averci perso in giro per la nostra inefficienza da meridionali. Da aprile a giugno il volume d’affari è calato del 70%, e a luglio si è dimezzato, costringendoci a dimezzare anche la forza lavoro. E in questo periodo di crisi equivale ad una bestemmia…”.


Pasqualina racconta poi un aneddoto per motivare la sua opinione sulla “inutilità della decisione di chiudere la strada al traffico: il primo maggio scorso ho conosciuto una biologa americana del National Geographic che passava da queste parti. Ne ho approfittato per chiederle un parere e sapere se da una semplice foto si possa decidere se una parete rocciosa sia o meno pericolosa. Mi ha risposto, sorpresa, dicendo che esistono degli appositi strumenti che senza timore di smentita danno tutte le informazioni necessarie. Ebbene perché non li usano? A mio avviso si è solo fatto dell’allarmismo. Hanno bloccato l’economia del posto, a noi chi ci risarcirà? Almeno rimedino e prima di agosto riaprano la strada!”.


Non dovesse essere così? “Non so cosa faremo, forse, meglio non dirlo…”.


Giuseppe Cerfeda


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Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..

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di Hervé Cavallera

Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.

Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.

Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.

Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.

Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.

Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.

Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).

È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.

Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.

Festa o vacanza?

Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.

Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.

Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.

È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?

Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.

Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.

Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.

E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.

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Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

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