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Approfondimenti

L’amore è (sempre) una cosa meravigliosa

Coppie di fatto nel Salento. L’amore è un miracolo uguale per tutti: Gaia e Giovanna, compagne da 3 anni, vivono la loro storia alla luce del sole: “Il nostro sogno più grande? Poterci sposare e avere dei figli senza dover andare all’estero”.

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In Italia circa un milione di persone (dati Istat) si è dichiarato omosessuale o bisessuale, più tra gli uomini, i giovani e nell’Italia centrale. Altri due milioni circa hanno dichiarato di aver sperimentato nella propria vita l’innamoramento o i rapporti sessuali o l’attrazione sessuale per persone dello stesso sesso. Forti difficoltà emergono per gli omosessuali/bisessuali in famiglia. Circa il 20% dei genitori sa che i loro figli vivono una tale condizione. Il dato è più alto per i fratelli (45,9%), i colleghi (55,7%) e soprattutto gli amici (77,4%). Gli omosessuali/bisessuali dichiarano di aver subito discriminazioni a scuola o all’università, più degli eterosessuali (24% contro 14,2%) e così anche nel lavoro (22,1% contro il 12,7%). Un altro 29,5% si è sentito discriminato nella ricerca di lavoro (31,3% per gli eterosessuali). Considerando tutti e tre questi ambiti, il 40,3% degli omosessuali/bisessuali dichiara di essere stato discriminato, contro il 27,9% degli eterosessuali. Si arriva al 53,7% aggiungendo le discriminazioni subite nella ricerca di una casa (10,2%), nei rapporti con i vicini (14,3%), nell’accesso a servizi sanitari (10,2%) oppure in locali, uffici pubblici o mezzi di trasporto (12,4%).


Questi i freddi numeri, che sono importanti ma non raccontano quanto sia triste, ancora oggi, doversi occupare di discriminazione ai danni di chi è ritenuto “diverso”. Nonostante la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, all’articolo 21, afferma categoricamente: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.


L’amore è un miracolo ed è uguale per tutti, sia esso eterosessuale, tra due uomini, o tra due donne, purché consenzienti: nessuno dovrebbe sentirsi costretto a nasconderlo. Questo in teoria, perché ci rendiamo conto come nella realtà non sia esattamente così, soprattutto nel Meridione e ancor di più se si vive in piccoli centri di provincia.


Gaia_GiovannaEcco perché abbiamo voluto incontrare Gaia Barletta e Giovanna D’Alema, compagne da tre anni che vivono il loro amore alla luce del sole e sono anche rispettivamente presidente e segretario dell’Associazione di volontariato LeA-Liberamente e Apertamente.


Lea nasce a Lecce nell’aprile del 2013 con l’obiettivo di difendere e promuovere i diritti della comunità LGBTQI* (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali…) e combattere ogni forma di discriminazione delle persone omosessuali e transessuali, mediante iniziative di vario tipo, puntando sul coinvolgimento diretto della cittadinanza e prediligendo il linguaggio artistico come canale di comunicazione. “Un’associazione non affiliata a nessun ente nazionale”, spiega la presidente Gaia Barletta, “ma partita dal basso per plasmare una strategia adattata al contesto di Lecce e del Salento. Un’associazione del territorio e per il territorio. Uno dei pregi della nostra associazione è quello di essere totalmente inclusiva e non settorializzata, collaboriamo, infatti, con tutte le associazioni del territorio perché la lotta per i diritti deve riguardare tutti ed è una questione di civiltà. La maggior parte dei nostri associati, giusto per intenderci, è eterosessuale”.


Gaia e Giovanna non nascondono il loro amore e sono per molti un esempio. Cosa significa vivere apertamente una relazione omosessuale nel Salento? Giovanna non ha dubbi e già ci porta nei meandri di una provincia ancorata a stereotipi tutt’altro che superati: “Bisogna distinguere, in alcuni paesi non se ne parla proprio, si è quasi convinti che in quel centro l’omosessualità non esista, che sia una “piaga” ma che non li ha toccati. In quei Comuni tutto è più difficile, anche perché non ci sono associazioni di settore e chi si scopre omosessuale è abbandonato a se stesso e ai suoi dubbi. Nei paesini, proprio perché piccoli centri, si è sempre un passo indietro su queste tematiche. A Lecce abbiamo vissuto sulla nostra pelle la difficoltà di comunicare. Fino ad un paio di anni fa, c’era solo Agedo, l’associazione di genitori, parenti e amici di omosessuali, ecco perché abbiamo sentito l’esigenza di formare un’associazione, di riunirci e far capire a tutti che non c’è niente di male a camminare per strada mano nella mano”.


Nella vita di tutti i giorni siete mai state vittime di episodi di intolleranza? “È accaduto qualche volta che ci urlassero dietro, dandoci delle lesbiche (“cosa tra l’altro che non ci offende perché lesbica non è un insulto”), ma nulla di serio. Soprattutto mai episodi di violenza e, a quanto ci risulta mediante l’associazione, neanche ai danni di altre persone. In provincia, invece, abbiamo registrato un paio di casi: a Gallipoli un ragazzo in discoteca ha preso le difese di una ragazza transessuale ed è stato picchiato; un altro episodio, non verificato direttamente, ha riguardato invece due ragazzi, ai quali sarebbe stato vietato di partecipare ad un’attività sportiva perché destinata alle coppie e quindi, secondo loro, ad uomo e donna”.


Un altro aneddoto riguarda il Rainbowday, iniziativa contro l’omofobia, organizzato da Lea: “Nel 2014 l’abbiamo organizzato in piazza Sant’Oronzo, quest’anno non avendo a disposizione la piazza”, racconta Gaia, “lo abbiamo pensato, sempre con il patrocinio del Comune, come manifestazione itinerante e, per tutta la giornata, con un furgoncino anni ’70 addobbato con un arcobaleno di cartapesta, abbiamo girato per la città. Durante la seconda delle sei tappe previste, in via Trinchese, sulla vetrina di un chiosco, è apparsa una scritta omofoba che recitava: “Genitori, tenete lontani i vostri figli dai gay”. Episodio poi chiarito con il gestore del chiosco, ma che ha dato molto fastidio. Ci sono anche aneddoti positivi come a Leverano dove, di recente, il preside di una scuola media, mostrando grande lungimiranza, ha chiesto il nostro intervento sulla famosa e inesistente teoria del gender (teoria definita da una precisa corrente del pensiero cattolico come negazione dell’esistenza delle differenze sessuali, sostenendo che maschio e femmina altro non sono che delle “costruzioni sociali”)”.


Gaia e Giovanna si sentono perfettamente integrate o in qualche modo soffrono una condizione di isolamento? “Integrate!”, rispondono all’unisono. “Siamo fortunate perché entrambe proveniamo da famiglie che hanno accettato la nostra omosessualità con naturalezza”. Giovanna poi si mette a nudo e racconta la sua esperienza di coming out: “Dissi a mia madre di aver baciato una ragazza e lei mi rispose “Finalmente l’hai capito! A me non interessa, resti la mia ‘Giovanna disordinata’, quindi… vai ad aggiustare la tua camera!”. Un messaggio di normalità che mi ha rasserenato”. Ed anche un messaggio a chi si nasconde: “Venite allo scoperto, tanto prima o poi le cose si sistemeranno. Comprendo, però, le difficoltà di molti e ammetto l’esistenza di casi estremi con ragazze o ragazzi anche picchiati per la loro omosessualità”.


Voi siete state forse le prime a Lecce a venire così allo scoperto. Da allora è cambiato qualcosa? “Dietro al nostro esempio altre coppie di ragazze lo hanno fatto e vivono tranquillamente la loro vita; minore, forse, il fenomeno tra i ragazzi”.


Da sinistra Gaia e Giovanna

Da sinistra Gaia e Giovanna


Siete una coppia a tutti gli effetti e sembrate vivere serenamente la vostra relazione. Cosa vi manca? “Poterci sposare e avere dei figli”, ammette Giovanna, “a settembre siamo andate a vivere insieme e tagliato un primo piccolo traguardo. Ora pensiamo al matrimonio, abbiamo anche valutato l’opportunità di andare all’estero per realizzare il nostro sogno d’amore. Per il momento aspettiamo, perché vorremmo poterlo fare a casa nostra; dover andare in un altro Paese sarebbe una sconfitta. Vediamo cosa succede”.

E il desiderio di maternità? “Vorremmo poter concepire e diventare mamme, è un desiderio che riguarda entrambe”. Cosa rispondete a chi ritiene inadatta una coppia omogenitoriale? “L’essere genitori prescinde dall’orientamento sessuale e su questo esistono studi scientifici comprovati in tutto il mondo, anche in Italia”.


I bambini che crescono con genitori dello stesso sesso corrono il rischio di essere discriminati? “Esistono tante famiglie non intese come classiche cioè con papà e mamma; l’importante è amarsi e trasmettere amore. Conosciamo altre coppie omogenitoriali i cui figli sono cresciuti serenamente e non sono certo in analisi come qualcuno vorrebbe far credere. Certo, son dovuti andare all’estero e quando tornano in Italia non sono riconosciuti come famiglia, ma loro non hanno bisogno di alcun riconoscimento, perché una famiglia lo sono già. E per davvero!”.


Qualcosa, però, pare muoversi ed anche la Chiesa non sembra più così categorica. L’argomento interessa soprattutto Giovanna che si dice “credente, molto credente. Prego molto e riconosco i valori cristiani con i quali sono stata educata. Allo stesso tempo, però, difendo il mio diritto ad amare una persona del mio stesso sesso e non mi sento affatto né sbagliata né un abominio come invece l’istituzione-chiesa vorrebbe farci credere”.


Cosa consigliate a chi vive di nascosto le sue tendenze sessuali? “Di venire fuori, perché dopo diventa tutto più bello”.


Quanto è grande secondo voi il numero di persone che non si dichiara apertamente? “Molto grande. Ci sono moltissime persone, soprattutto adulti, che non verranno mai allo scoperto”.


Il vostro desiderio più grande? “Il riconoscimento per tutti, anche per noi. Siamo realizzate come coppia, aldilà di quello che non ci danno: ci amiamo alla follia e abbiamo amici e famiglie che ci sostengono, ma sappiamo cosa significa essere una minoranza ed avere paura di tante cose”. Anche delle più semplici come tornare la sera tardi a casa: “Per quanto Lecce  sia una città civilissima e mai abbiamo avuto sentore di episodi del genere”, ammette Giovanna, “non nascondo che quando capita di restare sole per strada, di notte, abbiamo il timore di aggressioni. Non a Lecce, ma da altre parti non è certo la prima volta che vengono registrati casi di violenza contro coppie omosessuali”.


Dall’11 al 13 dicembre si svolgerà, presso le Manifatture Knos, il Salento Rainbow Film Fest, festival di cinema a tematica LGBTQI*: “Non solo film e documentari”, spiega Gaia. “ma anche workshop, presentazioni di libri, incontri con gli autori e laboratori. È una manifestazione autofinanziata che stiamo costruendo con l’aiuto di tante realtà e di tante persone a partire dai nostri soci”.


Tra le tante attività di LeA, ci piace sottolineare quella (in collaborazione con Differentemente) dello Spazio Arcobaleno, uno Sportello gratuito di supporto psicologico LGBTQI*, attivo ogni martedì, dalle 17 alle 19, presso il Fondo Verri in via Santa Maria del Paradiso n°8, a Lecce. La prenotazione della consulenza è obbligatoria e avverrà esclusivamente il lunedì dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19.


Info: spazioarcobalenolecce@gmail.com eil  324/7913534.


I contatti di LeA-Liberamente e Apertamente: 324/0906528; www.associazionelea.org; lea.lgbtq@libero.it; Fb: LeA-Liberamente e Apertamente.


Giuseppe Cerfeda


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Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..

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di Hervé Cavallera

Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.

Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.

Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.

Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.

Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.

Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.

Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).

È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.

Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.

Festa o vacanza?

Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.

Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.

Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.

È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?

Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.

Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.

Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.

E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.

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Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

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