Approfondimenti
Letture estive: “I miei compagni di scuola” di Rocco Boccadamo
Nel mio ultimo libro “Zia Valeria”, è compresa una narrazione dal titolo “1952/1960 – Il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori”, che qui pubblico, soprattutto, a beneficio di quanti non avessero già avuto modo di leggerla e/o volessero farlo adesso…

I miei compagni di scuola
Nel mio ultimo libro “Zia Valeria”, è compresa una narrazione dal titolo “1952/1960 – Il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori”, che qui pubblico, soprattutto, a beneficio di quanti non avessero già avuto modo di leggerla e/o volessero farlo adesso.
In seno a detta “storia”, rievocativa di un importante aspetto degli anni belli del “ragazzo di ieri”, sono, fra l’altro, indicati i nomi dei compagni delle Superiori, per come, mentre scrivevo, sono riuscito a scorrerli in rassegna, a mente.
Successivamente, invece, ho chiesto e ottenuto dall’Istituto Tecnico Commerciale “Cezzi – De Castro” di Maglie, l’elenco ufficiale della 5^ classe, sezione B, di cui facevo parte, che, pure, accludo.
Dal 1960 al 2024, sono passati ben sessantaquattro anni. Ebbene, a così tanta distanza di tempo, mi è stato dato, con emozione, di ricontattare, risentire e, in alcuni casi, rivedere, una parte dell’antica scolaresca di ragionieri.
In aggiunta, nelle more di poter, più avanti, organizzare un incontro collettivo, ho voluto inviare o consegnare in dono, a tutti i miei compagni, una copia del libro richiamato in apertura.
Tranne, con rammarico, agli undici che, purtroppo, non ci sono più.
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1952/1960, il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori
Traggono, insolitamente, abbrivio, le presenti note, da un commento, inerente a una mia narrazione di qualche settimana fa, postatomi via Facebook da Giorgio Ruggeri, originario di Uggiano La Chiesa, per cinque anni compagno di classe, anzi contermine di banco, alle scuole superiori, e, però, mai più rivisto dal lontanissimo 1960: “Hai tanti bei ricordi della tua terra. Mi aspetto qualche pubblicazione di quel mitico Istituto Tecnico di Maglie che abbiamo lasciato nel 1960. Ti saluto”.
Prima di tracciare la specifica rievocazione invocata dall’antico coetaneo e amico, ritengo opportuno soffermarmi su un minuscolo rosario di “pillole” delle mie esperienze scolastiche antecedenti, afferenti, per l’esattezza, al ciclo delle “Medie”.
Invero, conseguita la licenza elementare, mi successero, inanellandosi, una serie di piccoli e però particolari eventi, che lasciarono qualche segno in quelle correlate tenere stagioni. Intanto, iscrittomi per frequentare, a Maglie, il richiamato corso di studi, iniziai concretamente a farlo in un canonico (per l’epoca) 1° ottobre, ricordo, nella sezione “Prima D”, docente di lettere il giovane professore Francesco Erroi. In parallelo, mi sistemai, come “pensionante”, presso una famiglia della cittadina, dove si trovava già, alloggiato in analoga formula, un mio compaesano, nonché parente, il quale attendeva alle lezioni nel locale Liceo classico.
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Sennonché, scivolate via, sì o no, un paio di settimane, giunse a mio padre, impiegato comunale, la notifica della mia ammissione a un convitto dell’Inadel (Istituto di previdenza per i dipendenti degli enti locali) ubicato ad Anagni (FR), dove, purché fossi stato di anno in anno promosso, avrei potuto compiere l’intero percorso formativo, fino alla maturità o al diploma, in regime completamente gratuito, compresi vitto, alloggio, libri di testo e tasse scolastiche. Peraltro, ad Anagni, nella medesima struttura scolastica dell’Inadel, intitolata al Principe di Piemonte, c’era già, da un biennio, il mio fratello maggiore Antonio. Lasciai, quindi, in fretta e furia, la scuola di Maglie e, accompagnato in treno dal citato genitore, raggiunsi il convitto nella cittadina laziale. Ma la relativa esperienza, nonostante si trattasse di una sistemazione obiettivamente buona in ogni senso, si esaurì, purtroppo, in modo infausto, nel volgere di un risicato arco di tempo. Con la motivazione di non sopportare il distacco dal mio paesello d’origine, dalla mia famiglia e, soprattutto, da mia madre, vissi, o diedi a intendere di vivere, un’autentica tragedia, per cui, in breve, mio padre fu costretto a ripetere il viaggio ad Anagni e a riportarmi a casa. La mia capricciosa ma inamovibile impuntatura fu presa come un autentico smacco non solo in casa, ma pure presso i parenti e fra gli amici compaesani: si pensi, a undici anni e mezzo, mi trovai appiccicata addosso, addirittura, l’etichetta appellativa di “rovina famiglie” e/o mi vidi piovere sul capo l’osservazione “Il Padreterno dà i biscotti a chi non ha denti per mangiarli”. Ma la storia non finisce qui. Difatti, una volta rientrato a Marittima, il piccolo, criticato “reduce” assunse un’ulteriore rigida posizione, facendo cioè presente, con vigore, che non gli andava di far la brutta figura di comparire, in ritardo rispetto all’inizio delle lezioni, in una classe di Scuola media pubblica, fosse a Maglie o a Tricase.
Di conseguenza, non gli rimase che affidarsi al concittadino maestro delle elementari, Alfredo Quaranta, prendendo a svolgere insieme con lui, ogni pomeriggio, il programma didattico della prima media e sostenendo a Maglie, da privatista, nel successivo giugno, l’esame finale, con esito positivo. La stessa sceneggiata ebbe, purtroppo, a verificarsi in corrispondenza dell’anno scolastico seguente, sebbene io avessi spergiurato che giammai si sarebbe ripetuta la prima infantile rinuncia collegata al convitto. In detta seconda esperienza anagnina, feci in tempo a mandare a quel paese, e anche oltre, l’insegnante di matematica della locale Scuola media. Questi, rivedendomi nella sua 2^ e avendo a mente il mio anticipatissimo abbandono dell’anno precedente, mi chiese dove e come avessi frequentato in alternativa e volle saggiare la mia preparazione con la coppia di domande a bruciapelo “tre per quattro, quanto fa?” e “quattro per tre, quanto fa?”, e, alla mia ripetuta risposta di dodici, fece seguire l’interrogativo trabocchetto scontato “e perché?”.
Da parte mia, sotto agitazione o per un improvviso vuoto di memoria, risposi al secondo problema con un banale “perché è la stessa cosa”, senza minimamente accennare alla regola, men che elementare, della nota proprietà commutativa della moltiplicazione “cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia”. Risate a tutto spiano, se non sghignazzi, dalla bocca del docente, il quale, secondo il sentire infantile, ma non troppo, della vittima, si accaniva su un malcapitato; con l’aggravante, che le sue sfacciate reazioni d’ilarità e di scherno arrivavano immediatamente ad accomunare l’intera scolaresca. Per ciò, non riuscendo a trattenermi, rivolto al professore, io finii con lo sbottare, d’istinto, in un: “Lei è un p….!” (a chiare lettere, secondo Wikipedia, suide addomesticato, che grugnisce). Dopo di che, preso per un braccio dallo stesso autorevole destinatario dell’improperio, verosimilmente colto di sorpresa dalla mia reazione e divenuto paonazzo in volto, mi trovai in un baleno di fronte al preside e, seduta stante, scattò la sospensione, per alcuni giorni, dalle lezioni (poco male, ragionai tra me e me, tanto intendo lasciare questa scuola e tornarmene nel Salento).
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Finalmente, ci fu da predisporre la frequenza della terza media e, questa volta, niente tergiversazioni su opzioni convittuali ma semplice e diretta iscrizione alla scuola pubblica di Maglie e, guarda caso, nuovamente sezione D e docente di lettere il già citato Francesco Erroi.
Nel complesso, si rivelò del tutto agevole l’esperienza da normale frequentante, con la sola eccezione di talune mie esitazioni, specie all’inizio, nel seguire le lezioni di francese (evidentemente, durante il biennio trascorso in veste di allievo privatista del maestro Alfredo, non avevo assimilato a sufficienza le relative nozioni). Per fortuna, in quel corso della scuola pubblica, c’era un professore molto bravo, anche se dal carattere un tantino particolare, Giuseppe Macrì, il quale, in certo qual modo, mi prese a cuore e, specialmente, mi tenne sotto tiro, giungendo talora – tempi lontani e, ovviamente, agli antipodi rispetto agli attuali – a trascinarmi fino alla lavagna e ad appoggiare lievemente ma ripetutamente la mia fronte sulla relativa lastra nera, sentenziando: “Se non te lo “imparo” io, il francese, non te lo “impara” neppure Domine Dio”. Devo ammettere che la cura del docente Macrì si rivelò efficace.
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Ottenuta, poi, con buoni voti di profitto, la licenza di Scuola media, si presentò la necessità di scegliere per le Superiori. In cuor mio, pensavo di seguire l’esempio del mio fratello maggiore e di iscrivermi al ginnasio e, a ruota, al liceo classico, oppure, in subordine, forse volendo emulare il mio insegnante elementare, di andare a frequentare l’Istituto magistrale a Lecce. In concreto, però, giunse a prevalere uno sbocco differente, che, in fondo, accettai con convinzione, nell’ottica di vedere agevolato, con quello specifico diploma, l’inserimento nel mondo del lavoro, la conquista di un impiego. Insomma, la scelta cadde sull’Istituto tecnico commerciale statale, indirizzo amministrativo “Cezzi – De Castro” di Maglie, località dove mi sarei portato, da Marittima, con il pullman delle Sud Est, già sperimentato durante la terza media. E alla “Ragioneria”, così si appellava semplicemente e praticamente detto polo d’istruzione, trovai, fra i compagni di classe, Giorgio Ruggeri, menzionato all’inizio di questa narrazione. Si trattò, da subito, di una pratica diversa e accattivante, che si sviluppava non più fra ragazzini bensì fra adolescenti, con discipline da studiare in gran parte inedite. A oltre sessant’anni di distanza, serbo ancora memoria dei nomi dei frequentanti il corso “B”: Eugenio Agnello (Nociglia), Vito Alfarano (Tricase), Salvatore Baglivo (S. Eufemia di Tricase), Rocco Boccadamo (Marittima), Antonio Brocca (Muro Leccese), Francesco Bruni (Otranto), Giovanni Cioffi (Casarano), Antonio Costa (Maglie), Franco De Donatis (Torrepaduli), Luigi De Pascalis (Martano), Antonio De Santis (Martano), Antonio Di Noia (Uggiano La Chiesa), Luigi Filippi (San Cassiano), Antonio Gerardi (Corigliano d’Otranto), Vincenzo Guarino (Corigliano d’Otranto), Franco Latino (Poggiardo), Vincenzo Laurenti (Otranto), Oliviero Leuzzi, (Botrugno), Fernando Lisi (Miggiano), Giorgio Monteduro (San Cassiano), Giuseppe Monteduro (San Cassiano), Antonio Pastore (Cocumola), Franco Pirelli (Leuca), Giovanni Pisanò (Casarano), Ippazio Pulimeno (Corigliano d’Otranto), Gerardo Rizzo (Alessano), Luigi Rizzo (Otranto), Carmine Romano (Maglie), Giorgio Ruggeri (Uggiano La Chiesa), Luigi Rutigliano (Otranto), Giuseppe Schifano (Andrano), Vittorio Velotti (Melissano), Tommaso Vergari (Botrugno), Filippo Vergari (Montesano Salentino), … Vergine(Corigliano d’Otranto). Dei trentasei appena elencati, per la precisione, non tutti erano presenti nel primo anno, alcuni si aggregarono gradualmente nelle classi successive; due o tre compagni, purtroppo, non riuscirono a conseguire puntualmente il diploma, uno, invece, Filippo Vergari, bravissimo, compì un “salto” nel corso dell’anno scolastico, completando gli studi nel 1959, anziché nel 1960. Ricordo pure i nomi del Corpo docente succedutosi in seno al corso “B” durante l’intero ciclo: Luigi Antonica (inglese), Anna Balena (calligrafia), Paolo Congedo (italiano, 2^ e 3^ classe), Salvatore Errico (italiano, 4^ e 5^ classe), Luigi Ferrante (diritto ed economia politica, 5^ classe), Italo Giuri (ragioneria e tecnica, 5^ classe), Concetta Manna (stenografia), Luigia Manno(italiano, 1^ classe), Don Franco Maruccio (religione), Luigi Paolo Mazzotta(computisteria, ragioneria e tecnica, 2^, 3^ e 4^ classe), Laura Orlando (matematica), Stella Rosa (francese), don Francesco Rotundo (religione), Luigi Serio (diritto ed economia politica, 3^ e 4^ classe), Lucia Turco. (scienze naturali, chimica, geografia economica), Giuseppe Valentini (educazione fisica).
Per quanto riguarda la guida complessiva dell’Istituto, affiancavano il preside, Prof. Mario Duma, il segretario (all’inizio, Salvatore Gualtieri, dopo, rag. Domenico Mele) e l’addetto alla segreteria Giacomino De Donno, col prezioso ausilio dei collaboratori scolastici Nino e Ada.
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Anche in seno alla nuova realtà scolastica, nel giro di poco tempo, mi trovai coinvolto in qualcosa di imprevisto e imprevedibile, relativamente alle lezioni di lingua francese. Malgrado le prima indicate mie carenze in terza media, che avevano richiesto una cura energica da parte del professore Macrì (lo rivedo, negli occasionali fugaci incontri di primo mattino, in Piazza Capece a Maglie, dove aveva sede la Scuola Media in cui egli era rimasto a insegnare, nell’atto di roteare a lungo la mano e il braccio destro, come per dire “eh, cambiando scuola e con la nuova docente che avete trovato all’Istituto Tecnico, vi è andata proprio bene, fate la pacchia”), agli occhi e al giudizio della professoressa Stella Rosa ebbi subito ad apparire come un allievo non bravo ma bravissimo, un esempio; sia nelle interrogazioni, come nei compiti scritti, fui gratificato con una serie di nove e dieci.
In aggiunta a ciò, l’insegnante, a un dato momento, mentre teneva le sue lezioni nella seconda e nella terza “B”, prese l’abitudine di mandarmi a chiamare tramite il bidello Nino, in modo da far vedere agli allievi di quelle classi, chiaramente più grandi di età, con me direttamente presente e fungente da “campione”, come si dovesse studiare e dimostrare di sapere la sua materia. Per me furono, però, circostanze, piuttosto che gratificanti, di disagio e di “vergogna”, anche perché, durante i miei “sconfinamenti” nei corsi superiori, c’era sempre qualcuno che, sottovoce, mi indirizzava l’invito a ritornarmene nella mia classe, invece di prestarmi al gioco della docente. In particolare, al cospetto di studenti/giovanotti o quasi, il mio disagio cresceva durante l’inverno, quando, quattordicenne o poco più, esibivo pantaloni alla zuava e, ai piedi, calzettoni di lana fatti a mano e sandali semiaperti, per via dei fastidiosi geloni che, pur mordendo il freddo, non mi consentivano di infilarmi scarpe chiuse, chiaramente più adatte alla stagione. Tuttavia, come consolazione, negli scrutini finali della prima superiore, sulla pagella, accanto alla materia “Lingua francese”, vidi campeggiare un bel nove.
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Provo ora a dedicare veloci note aggiuntive, tra il serio e il faceto, su determinati professori.
Luigi Paolo Mazzotta, faceva su e giù, dalla sua residenza a Maglie, alla guida di un’autovettura Fiat 600. Come insegnante, non godeva di eccelsa fama, nondimeno era buono, gioviale e tollerante; di tanto in tanto, aduso a intercalare alla lingua italiana accezioni o frasi dialettali. Il primo compito che ci assegnò in seconda classe, materia, la computisteria, verteva sulla cosiddetta regola “catenaria”. Alle 8, ora di inizio delle lezioni, si era limitato a dettare la traccia dell’esercizio, recandosi, quindi, in un’altra classe in cui aveva lezione e lasciando a vigilare su di noi il collega di una differente disciplina. Ritornato alle 9, compì una rapida ricognizione fra i banchi e si accorse che nessuno aveva iniziato a svolgere il compito, forse perché le sue spiegazioni non erano state sufficientemente chiare alla scolaresca. Al che, si avvicinò a una parete dell’aula e proruppe in un “povero me, non hanno capito niente!”, e, a seguire, ritirò tutti i fogli e annullò la prova. Qualche tempo dopo, si ripetette un caso similare. Io pur cercando di studiare e approfondire per conto mio quella materia, a una verifica presi, come voto, 4, l’unico in tutta la mia carriera scolastica. Rimasi, di conseguenza, avvilito, per alcuni giorni “odiai” il professor Mazzotta, un mattino, incrociandolo casualmente per strada, arrivai addirittura a rinfacciargli ostentatamente, con la mano destra aperta su quattro dita, il brutto voto (per quel gesto, il giorno successivo, il docente mi rimbrottò severamente davanti a tutti i compagni). Negli anni seguenti, mi venne l’idea di aiutarmi con un altro libro, in aggiunta a quello di testo e, in tal modo, riuscii a trovarmi meglio con il docente in questione; quasi quasi, senza che me ne avvedessi, intervenne una sorta di miracolo. A comprova, eravamo in quarta, un giorno fui chiamato alla cattedra per un’interrogazione. “Parlami del conto lavorazione nelle imprese industriali “, mi invitò il professore. All’inizio un po’ timidamente, io provai ad argomentare e di lì a poco, inaspettatamente, notai che il docente, il capo quasi appoggiato sul piano della cattedra, se ne stava rivolto verso di me con lo sguardo fisso, con la bocca semiaperta e mi osservava concentrato e immobile. Mentre io seguitavo a esporre le nozioni che avevo assimilato, a un certo momento, il prof. Mazzotta si girò di scatto verso i compagni che seguivano la mia verifica dai banchi, ingiungendo loro: “State attenti, che parla il professore!”. Furono risate, come di fronte a una comica. Sia come sia, ottenni un buon voto. Dicevo sopra che, in certi frangenti, il prof. Mazzotta indulgeva ad atteggiamenti o a discorsi “alla buona”. Ad esempio, una volta, rivolto a Eugenio Agnello che stava chiacchierando in classe con un compagno, se ne usci con:” Agnello, la vuoi finire o no? Vedi che, se non la smetti, ti appendo”. Naturalmente, pure in questa occasione, ilarità generale, avendo, il prof., configurato l’immagine di un pacifico ovino macellato, appeso a un gancio e pendente sull’uscio di un negozio di carni. In un’altra circostanza, chiamando in causa il compagno Antonio Di Noia: “Noia (n.d.a., cognome in sintesi, al posto di Di Noia), perché ridi?”. Risposta del ragazzo: “Professore, è Agnello che mi fa ridere”. Replica conclusiva: “E tu, non ti fare ridere”. In quarta classe, il sabato, avevamo lezione, con il prof. Mazzotta, dalle 12 alle 13. Or bene, con l’intraprendenza da ragazzi ormai grandicelli, pensammo di prendere la licenza, approfittando dell’intervallo per il cambio di insegnante a mezzogiorno, di svignarcela, prima che il docente Mazzotta giungesse da noi. Era brevissimo il percorso fra la nostra aula e il portone l’uscita della scuola, anche se si doveva passare davanti alla porta della presidenza. Partendo da quell’idea, ponemmo ripetutamente in atto l’alleggerimento dell’orario didattico del sabato, anche se capitava di sentire dal prof. Mazzotta, in arrivo, “dove andate?” e dal preside “siete impazziti, che fate, rientrate in classe”. Tutto inutile, la fiumana della quarta “B” era ormai, in maggioranza, per strada. In fondo, il nostro pensiero autoassolutorio era che rendevamo un favore all’insegnante, consentendogli di ritornare nella sua residenza, in anticipo rispetto al previsto. Saltando dagli anni Cinquanta del secolo scorso al 2000 circa, ho avuto modo di contattare e rivedere a Lecce il professor Luigi Paolo Mazzotta, il quale si è ricordato subito del suo allievo, Boccadamo da Marittima (“eri uno bravo, vero?”, mi ha chiesto al telefono). Su suo invito ci siamo incontrati al Bar Manhattan, consumando un’aranciata amara in due e, infine, mi ha brevemente accolto nella sua abitazione nelle vicinanze. Non molto tempo fa, ho saputo che il professor Mazzotta se n’è andato, ultranovantenne.
La professoressa di matematica, Laura Orlando, era molto brava e preparata, come persona, secondo il mio giudizio di adolescente, lasciava, invece, un po’ a desiderare, andava per simpatia e io, nonostante me la cavassi bene anche nella sua disciplina, non rientravo nel novero degli allievi prediletti. Giovane, nubile, portava spessissime lenti. Quando dovevamo svolgere compiti in classe, la sua prima azione era di farmi lasciare il banco dove ero seduto abitualmente insieme a un compagno e di invitarmi a sedere, a solo, in un banchetto accanto alla cattedra. Quindi, dettava due tracce: una, per gli allievi che si trovavano nella parte destra di ciascuna fila di banchi e l’altra, per i restanti che avevano posto nella parte sinistra. Io, anche se l’insegnante mi diceva di svolgere una ben determinata prova, mi annotavo tutte e due le tracce, le valutavo e svolgevo quella che mi sembrava più facile. Il trucchetto funzionava quasi sempre. Solamente in un caso, si scoprirono gli altarini, allorquando la prova “tosta”, che sarebbe toccata anche a me, non fu svolta da alcuno della scolaresca: la docente trasse spunto da ciò, per fare mente locale, dopo di che mi rinfacciò, rimproverandomi, il giochetto posto in atto e annullò la prova.
In quarta, studiavamo la matematica finanziaria e attuariale, un vero e proprio calvario di formule da imparare e tenere a memoria. Riflettendo sulla limitazione visiva della Orlando, escogitai di copiare, con una matita o lapis, sul nero della lavagna, ovviamente in ore vuote o favorevoli, la maggior parte delle formule in questione, che la prof., anche mentre spiegava avvicinandosi alla lavagna, non riusciva a notare. Al contrario, noi allievi, quando eravamo interrogati, alla richiesta di riferire la formula A o B dicevamo: “Prof., posso scriverla alla lavagna?”. Così, spesso riuscivamo ad aiutarci. La trovata funzionò per lungo tempo.
Il professore di italiano Paolo Congedo (seconda e terza classe) era un docente eccezionale, di poche parole, ma di profondissima cultura e vasta esperienza. Durante le spiegazioni, lo seguivamo in assoluto, quasi religioso silenzio e con molta attenzione. Severo ma anche giusto, disponibile nelle interrogazioni e nelle verifiche in genere. In quarta e in quinta, arrivò, al suo posto, il professor Salvatore Errico, il quale, inizialmente, sembrò soffrire un po’ per la difficile successione; la stessa scolaresca, ovviamente, accuso la differenza e, tuttavia, non tardò a adattarsi e a integrarsi col nuovo docente, peraltro persona dal tratto ottimo e alla mano.
L’avvocato Luigi Ferrante, di ottima e nobile famiglia, docente di diritto ed economia in quinta classe, era una pasta d’uomo, un signore; ci lasciava un po’ fare e noi, purtroppo, lo ripagavamo con qualche intemperanza. Per citare, mentre lui parlava, accendevamo in classe una radiolina e, quando la stessa emetteva i classici fischi che precedono l’inizio di un programma, non poteva non accorgersi del suono, che noi sostenevamo, impunemente, dovesse attribuirsi al cinguettio degli uccellini sugli alberi d’arancio del giardino confinante con la scuola. Ancora, da poco avevo scelto di andare a sedermi all’ultimo banco accanto a Giorgio Monteduro, detto “palo” perché di altezza prossima ai due metri, a un certo punto proposi, ai vicini di banco, l’idea di vivacizzare le lezioni del professor Ferrante.
Approfittando dell’esistenza di una stufa per riscaldamento che, abitualmente, si trovava in fondo all’aula, proposi di cucinare qualcosa, appunto, durante l’ora del professore Ferrante, ad esempio due uova. Dalle parole ai fatti: chi portò una padellina, chi olio e sale, chi, secondo ricetta, un paio di uova fresche. Mentre il professore spiegava, la stufa fu inclinata con l’ampio piatto in posizione orizzontale, la padellina con l’olio posata sulla fiamma; al cadere sull’olio bollente, le uova emisero il classico sfrigolio, il professore sentì lo strano “rumore”, agitandosi e chiedendo di colpo “che cosa stesse succedendo laggiù”. Gli improvvidi cucinieri provarono rapidamente a smontare e disattivare l’apparato, ma, ovviamente, l’avvocato Ferrante si accorse di tutto, senza però farne una tragedia. Diversamente, il mattino seguente, prima dell’inizio delle lezioni, sulla Quinta “B”, si abbattette la violenta ramanzina del bidello Nino, il quale, imprecando all’indirizzo dell’intera scolaresca per la malefatta, si lamentò, specialmente, di aver dovuto lavorare a lungo per ripulire il pavimento dai residui dell’olio e delle uova rimaste non cotte.
Dopo il triennio di docenza del professor Luigi Paolo Mazzotta, in quinta, per ragioneria e tecnica, ci arrivò il professore Italo Giuri, giovane, piccolo di statura, capelli color biondo rossiccio, occhi verdi, accompagnato da nomea di ottimo insegnante, ma, nello stesso tempo, in barba all’età, di persona austera, molto esigente e severa. Dire che, noi del corso “B”, quanto a bagaglio di preparazione pregressa, non eravamo messi propriamente bene. Iniziò l’esperienza con il professor Giuri, i fatti confermarono subito la presentazione iniziale, in occasione delle verifiche, come voto, si affacciavano anche alcuni due o tre; così, un giorno, era toccato al compagno Vito Alfarano, il quale, rimasto ovviamente male per l’esito della prova, se ne ritornò al banco, seminando, vocalmente, sequenze di imprecazioni e di minacce indirizzate al prof. Giuri. Improvvisamente, si presentò una scena originale e quasi patetica, il docente, eretto sulla pedana della cattedra, con le braccia aperte a configurare una sorta di Santa Croce, ad esclamare: “Non ho paura delle minacce, anzi sono pronto al sacrificio”.
Intorno a Natale 1959, si sparse la voce che il prof. Giuri sarebbe stato il componente interno nella commissione degli esami di maturità. A tale notizia, noi tutti restammo sconcertati e commentavamo “se sarà nominato lui, anziché aiutarci, con la sua severità ci danneggerà se non, addirittura, rovinerà”. In quel periodo, io, nel pomeriggio, studiavo insieme con Franco Pirelli e Franco De Donatis, nell’abitazione presa in affitto a Maglie, per tutto il periodo dell’anno scolastico, dai genitori del secondo compagno di cui sopra. Di fronte alla prospettiva Giuri agli esami di Stato, l’anzidetto terzetto di interessati, pensò a un’iniziativa: scrivere al professore una lettera in bianco, consigliandogli di non accettare, per il suo bene, l’incarico di membro interno. Detto fatto, la missiva fu vergata, con uso, non solamente della penna ma pure di guanti per non lasciare tracce sul foglio e sulla busta, e spedita. Dopo un paio di giorni, mentre stavamo svolgendo in classe un compito proprio col professor Giuri, bussò alla porta dell’aula il bidello Nino: “Dottore, c’è una lettera per lei”. Il destinatario, stupito, prese in mano il plico e, pur seguitando a sorvegliare, al solito, fra i banchi, onde controllare che qualcuno non copiasse dai compagni, lo dischiuse e diede velocemente una scorsa al contenuto. “Molto bene!”, fu la sua ostentata osservazione. Intanto, io e i coautori dell’operazione, ce ne stavamo a capo chino sul banco. Nei giorni successivi, tuttavia, ritornammo arditi, domandando, al docente, se fossero vere le voci sull’argomento. Ma lui replicò con forza: “Non è niente vero, sono notizie destituite di ogni fondamento”. E continuando: “Poi, voi stessi, forse, non mi vorreste come membro interno” e, puntando il dito e lo sguardo verso di me:” Proprio lei, probabilmente, non mi vorrebbe”. Era duro mantenere la compostezza e far finta di niente. Di fatto, il prof. Giuri fu designato come commissario interno alle prove di maturità. Nell’ultimo giorno di lezioni, io trascorsi la mattinata in segreteria, per copiarmi in chiaro i programmi di tutte le materie. Dopo qualche ora, nel cortile della scuola, incrociai il prof. Giuri con molti registri di classe sottobraccio, che mi chiese dove fossi stato invece di essere presente in classe, aggiungendo quindi: “Si è persa un’occasione importante e irripetibile, nonostante le difficoltà e i contrasti relazionali nel corso dell’anno, oggi, nella Quinta “B”, c’è stata un’assemblea immemorabile, commossa, abbiamo tutti pianto per il commiato”. E, dopo, mi invitò a seguirlo in un’aula, per dettargli le assenze degli alunni da riportarsi nella pagina degli scrutini di fine anno.
In realtà, in mia presenza, a dimostrazione inaspettata della fiducia che riponeva in me, egli fece gli scrutini: di promozione o meno per le classi intermedie e ai fini dell’ammissione o meno agli esami di Stato, per la mia classe Quinta “B”. Giunto al mio nome, disse: “La ammetto con sette e sette (in ragioneria e in tecnica), ma guai a lei se, agli esami, non riporterà un voto migliore”. Giunsero le prove conclusive, scritte e orali; in occasione delle seconde, mi toccò un’interrogazione di circa un’ora, fortunatamente risposi a tutti, notando, man mano, come sul volto del mio insegnante andassero vieppiù a stamparsi le impronte di una grande soddisfazione.
Dopo una decina di giorni, fui informato che erano usciti i “quadri”, lo dissi immediatamente a mio padre e, con un’autovettura presa a noleggio, ci recammo insieme a Maglie. All’ingresso dell’Istituto, prima ancora di avvicinarci ai fogli con i risultati degli esami, incontrammo il segretario Mimì Mele, il quale, con un sorriso, mi fece: “Hai preso voti tutti tondi, complimenti”, volendo dire otto e nove. Così lessi, in effetti, sui “quadri”; in particolare, nelle materie ragioneria e tecnica del Prof. Giuri, avevo riportato un bellissimo nove. I miei, erano i migliori voti di tutto l’Istituto e, come seppi dopo, si collocavano ai più alti livelli pure su scala provinciale.
Come avvenuto con riferimento al prof. Luigi Paolo Mazzotta, intorno al 2000, ho chiesto e ottenuto di rivedere anche il professor Italo Giuri. Commovente il clima dell’accoglienza, contraddistinto da un particolare; quando gli ricordai che agli esami di maturità mi aveva messo nove in entrambe le sue materie, il docente rimase allibito e chiamò immediatamente la moglie, già sua allieva, dicendole: “Senti, questo signore mi sta rammentando che, agli esami di Stato, gli ho dato 9 nelle mie due materie” e la consorte:” Sembra proprio impossibile, già che, quando tu assegnavi un sei o un sei e mezzo, si era proprio al massimo”.
Avviandomi alla conclusione, non posso non dedicare una serie di piccoli dettagli o particolari ai miei cari compagni delle Superiori.
Il già menzionato Vito Alfarano aveva un amico straordinario, quasi un gemello, Salvatore Baglivo, prendevano insieme, da una vita, il treno Tricase – Maglie e viceversa, si scorgevano ovunque e sempre insieme, appariva nitido e inequivocabile che si volevano molto bene, erano affiatati, guai a parlare, all’uno, male dell’altro o viceversa: anche se, spesso, Alfarano sovrastava il secondo con iniziative, diciamo così, vivaci. Era solito, Totò Baglivo, dotarsi di quaderni di grosso formato, se non che, nel giro di pochi giorni, gli stessi erano ridotti alla misura più minuscola, del costo di cinque o dieci lire a pezzo, in quanto Vito glieli sfogliava di nascosto; beninteso, sfogliava, nel senso che gli strappava le pagine per utilizzarle lui. La vittima si lagnava di ciò, ma solo per un attimo.
Alfarano era il soggetto che serbava gelosamente, nel portamonete, un foglietto con la brutta copia di un tema assegnatogli e svolto alle Elementari, “La mia mamma”.
Non avendo moltissima voglia di applicarsi nello studio, egli, al fine di aiutarsi, soleva, durante tutto il corso di studi, comprese le Superiori, copiare una parte di quell’antico componimento, in tutti i compiti che era chiamato a svolgere, qualsivoglia fosse la traccia e l’argomento. Detta pratica di Alfarano era nota agli insegnanti di lettere di mezza Terra d’Otranto.
Negli ultimi mesi scolastici della quinta classe, io, anziché restarmene in pensione presso una famiglia a Maglie, decisi di ritornare a fare il pendolare, in treno. Venuto a conoscenza della novità, Alfarano mi diffido dal comprare l’abbonamento con le Ferrovie Sud Est, dicendomi: “Tu chiederai i soldi ai tuoi genitori, ma gli userai, di fatto, esclusivamente per l’acquisto di sigarette, così fumiamo alla grande; intanto, durante i tragitti in treno, sarai sotto la nostra protezione, non ti preoccupare, già che conosciamo tutti i controllori delle Sud Est, anzi siamo loro amici”.
Adesso, sento di dover indirizzare un pensiero ad Antonio Brocca, detto, bonariamente, “la morte”, a causa del suo viso particolarmente e perennemente pallido. Un certo giorno, mi frullò l’estro di scagliare verso di lui il cancellino, intriso di gesso, che si adoperava alla lavagna, lo raggiunsi proprio sul viso, al che, il poveretto, dopo essersi accorto che ero stato io, corse lesto in direzione della presidenza e ritornò nella nostra classe insieme con il capo dell’Istituto, il quale mi intimò: “Vai immediatamente fuori!” e io, ubbidendo, me ne andai nel giardino/palestra della scuola.
Del gruppo di otrantini, il più benvoluto dall’intera scolaresca era Luigi Rizzo, i cui genitori avevano un negozio di generi alimentari, cosicché, Gigi, arrivava ogni giorno in classe con un bel panino imbottito, che, cuore alla mano e generosità grande, per l’intero anno scolastico, non vi fu una volta che lo mangiò da solo.
Una peculiarità, relativamente ai due martanesi Luigi De Pascalis e Antonio De Santis: durante le interrogazioni, provavano, talora riuscendo, ad aiutarsi l’un l’altro, mediante suggerimenti in “grico”.
Non me ne vogliano i restanti compagni, se non li rievoco, nelle presenti righe, uno per uno, ma tengo a dire che, di tutti gli iscritti al corso “B”., singolarmente e distintamente, serbo un vivido ricordo nella mia mente e dentro l’animo. E provo, ancora adesso, sentimenti di spiccata, sincera ammirazione per quanti di loro frequentavano l’Istituto sottoponendosi, quotidianamente, a una notevole fatica, per coprire, in bicicletta, il percorso dai rispettivi paesi a Maglie.
Una volta esauritasi la mia attività lavorativa e rientrato nel Salento, ho avuto agio di rivedere di persona alcuni compagni, invero pochi e ciò mi dispiace: Franco Pirelli, Franco De Donatis, Luigi De Pascalis, Antonio De Santis, Claudio Calzolaro, Giovanni Cioffi e Fernando Lisi.
Un ricordo speciale e commosso, infine, desidero innalzare a Salvatore Baglivo, il quale, l’ho saputo dopo, una ventina d’anni fa, ancora giovane, è stato purtroppo coinvolto, rimanendone vittima, in un incidente stradale sulla via che da Tricase conduce a Tricase Porto.
***
La mia primavera scolastica, specialmente il quinquennio delle Superiori, mi ha dato molto, formandomi e educandomi all’impegno in senso generale e alla ricerca e coltivazione di buoni rapporti con gli altri, consentendomi, in definitiva, di crescere. Sono, in particolare, fiero per i cordiali, amichevoli e quasi fraterni legami intrattenuti costantemente con tutti i miei compagni, nessuno escluso, e anche per la positiva interazione avuta con il Corpo docente e il restante personale dell’Istituto.
Si è trattato, non soltanto di una scuola didattica in senso strettamente culturale ma, pure, di una preziosa e insostituibile palestra di vita, in cui ho cercato di svolgere con umiltà e, insieme, con intensità, la mia parte, trovandomi sempre bene: dare agli altri, ma anche prendere dalle loro doti positive e dal loro buon esempio.
Da ultimo, ma non perché rivesta minore importanza, confesso che mi sono anche sanamente divertito.
Rocco Boccadamo
Alessano
Maglie – Leuca, zoom sul secondo lotto
Una passeggiata immaginaria lungo il secondo lotto del tratto sud della nuova Maglie -Leuca, pensato per uscire dai centri abitati di Montesano , Lucugnano, Alessano, Montesardo e Gagliano

di Lorenzo Zito
Corridoio plurimodale adriatico.
Tecnicamente, viene chiamata così la nuova Strada Statale 275 che, come abbiamo avuto modo di raccontarvi sugli scorsi numeri, sta iniziando a snodarsi, da nord verso sud, con il primo lotto (da Maglie a Montesano) che è già a tutti gli effetti un cantiere aperto.
Oggi faremo uno zoom sul secondo lotto, quello tra Andrano/Montesano e Santa Maria di Leuca.
L’ultimo passaggio burocratico di dominio pubblico a riguardo, poche settimane fa, ha visto i sindaci di Alessano, Corsano, Gagliano del Capo, Miggiano, Montesano Salentino, Specchia, Tiggiano e Tricase (i centri che saranno interessati dai lavori del secondo lotto) incontrarsi, assieme ad alcuni tecnici Anas, presso Palazzo Adorno a Lecce.
Un tavolo promosso dal presidente della Provincia, Stefano Minerva, per fare il punto sulle delibere di approvazione del progetto di fattibilità tecnico economica da parte dei singoli consigli comunali, in attesa di passare dalla progettazione esecutiva dell’opera al bando per l’assegnazione dei lavori.
L’idea, quindi, è quella di accompagnarvi in una passeggiata immaginaria lungo il nuovo tragitto lungo circa 19km che, secondo le previsioni, dal giorno in cui verrà cantierizzato (non prima di un anno e mezzo/due), richiederà circa 1350 giorni per essere portato a termine (poco più di 3 anni e mezzo).
Per una spesa, riferita ai soli lavori, di 140 milioni di euro.
CIÒ CHE NON È STATO
Brevemente ricordiamo che, dopo l’annullamento in autotutela da parte di Anas (nel 2016) della precedente gara (indetta nel 2009), furono prese in considerazione tre possibili alternative.
Scartate le prime due (dette Alternativa Est e Alternativa Ovest, con riferimento al lato da cui circumnavigare Tricase), fu scelta la cosiddetta Alternativa 3, che è quella che andiamo qui a illustrare, descritta dagli studi come quella con performance migliori dal punto di vista ambientale e funzionale, nonché per la sostenibilità dell’opera.
Va ricordato, inoltre, come il progetto inizialmente proposto da Anas prevedesse una statale a due corsie per senso di marcia (quindi quattro corsie) da Maglie sino a Leuca.
Soluzione che è stata conservata per il solo lotto nord e scartata per quello a sud, non solo per ridurne l’impatto ambientale ma anche per rispondere adeguatamente alla vera priorità dell’opera in questo tratto: portare il traffico verso il Capo di Leuca fuori dai centri abitati di Montesano, Lucugnano, Alessano, Montesardo e Gagliano, tutt’oggi tagliati in due dalla SS275.
Ultimo (ma non ultimo) l’elemento rifiuti: il nuovo progetto toglie Anas dall’imbarazzo delle discariche abusive emerse lungo il vecchio percorso tra Alessano e Tricase.
La scelta di allontanarsi da quelle aree ha un duplice effetto: da un lato scongiura il rischio di un sequestro dell’opera da parte della magistratura, dall’altro ha del tutto distolto i riflettori dal tema bonifica.
CIÒ CHE SARÀ
Eccoci allora al tracciato stradale che partirà, in direzione sud, dallo svincolo di Montesano-Andrano (nella mappa in basso in rosso).
Una lingua di asfalto con una carreggiata a due corsie, una per senso di marcia, costituita per il 71% circa da tratti in rilevato, per il 24,5% da tratti in trincea e per la restante parte, da opere in sottopasso (3.5%) e in sovrappasso con viadotti e ponti (0.4%).
22 curve, 28 rettifili, 9 intersezioni e 6 immissioni/diversioni per un percorso tecnicamente suddiviso in cinque tratti (che, come sta accadendo col primo lotto, non saranno realizzati all’unisono, ma con cantierizzazioni indipendenti, uno dopo l’altro).
Un dato interessante per gli amanti dei numeri, e non solo, ci arriva dallo studio dei volumi di traffico effettuato in fase di progettazione su alcuni punti nevralgici per la viabilità locale.
Eclatante il tratto di 275 tra Botrugno e San Cassiano, che in un totale di due ore (la somma dell’ora di punta mattutina e di quella serale) conta il transito di ben 2.300 mezzi. Interessante anche il rilievo della tangenziale di Tricase (“Cosimina”) dove nei 120 minuti più intensi passano più di 1.200 veicoli.
DA DOVE PASSA
Il rischio di appesantimento dei flussi sulla “Cosimina” è uno degli elementi che fecero cadere l’ipotesi dell’Alternativa Est (che avrebbe utilizzato proprio questa strada per il passaggio della nuova statale).
Ad oggi tuttavia, pur non inglobando il nuovo tracciato, è previsto che la tangenziale di Tricase venga raggiunta dalla Maglie-Leuca.
Va detto che la nuova opera smetterà, innanzitutto, di correre lungo quattro corsie già nel tratto finale del primo lotto.
A nord di Montesano, in prossimità di DFV, la strada si staccherà dal tracciato esistente, si ridurrà ad una corsia per senso di marcia ed eviterà l’abitato montesanese passandovi ad est, tra le campagne di Castiglione d’Otranto (vicino al campo sportivo) per arrivare ad un bivio.
Da un lato si continuerà a viaggiare per Leuca (lungo il secondo lotto), dall’altro partirà un braccio, anch’esso del tutto nuovo, destinata al traffico per e da Tricase.
Questa lingua di strada condurrà nella zona industriale tricasina, lasciandoci in località Serrafica, proprio alle porte della tangenziale Cosimina.
L’ultimo lembo del primo lotto, insomma, che porterà anche all’abitato di Montesano, sarà a lingua di serpente.
Ma questa è un’altra storia, chiamata “Lotto 1”.
SVINCOLO 1: LA ROTATORIA DI LUCUGNANO TORNA UTILE
Il secondo lotto conta 9 svincoli (numerati sulla mappa in alto) ed inizia ad est della stazione di Montesano-Miggiano-Specchia.
Si riallaccia subito al vecchio percorso, ricalcandolo fino alla mega rotatoria di Lucugnano.
Qui lo svincolo 1 (pianta in basso) sarà in adeguamento alle uscite esistenti: permetterà di entrare a Miggiano da via Padre Pio (A) e di raccordarsi alla viabilità della zona industriale tramite la famigerata (per dimensioni) rotatoria (B).
SVINCOLO 2: TRA LUCUGNANO E SPECCHIA
A questo punto il nuovo tracciato si discosta dal precedente: la 275 non prosegue più in direzione dell’area artigianale lucugnanese, ma si addentra nelle campagne.
La circumnavigazione della frazione avviene dal lato ovest, avvicinandosi ai capannoni calzaturieri della famiglia Sergio, in strada comunale Rivola, ed incrociando la Specchia-Tricase.
Proprio qui, in prossimità de “La Caiaffa”, sorge il secondo svincolo: “Lucugnano ovest”.
SVINCOLO 3: TRA L’AUDITORIUM E FILOGRANA
Lasciatasi alle spalle la terra di Girolamo Comi, la nuova 275 torna a calcare il vecchio tracciato prima di arrivare sul suolo di Alessano.
La statale si ricongiunge con la strada esistente, a poco più di cento metri dall’Auditorium Benedetto XVI, scavalca la strada vicinale Santa Caterina e ci conduce allo svincolo 3: sul già esistente incrocio con la SP 184, la strada del Gonfalone, lungo la quale si incontra anche il nuovo stabilimento calzaturiero di Antonio Sergio Filograna.
SVINCOLO 4: TRA LE CAVE IN DIREZIONE TIGGIANO
La nuova 275 cambia di nuovo rotta.
Stavolta, rispetto al vecchio tracciato, si spinge ad est, addentrandosi in zona Matine per non entrare più negli abitati di Alessano e Montesardo.
Lo svincolo 4 è quello di Tiggiano.
Sorgerà in zona Tagliate, lungo l’arco che la statale andrà a comporre con una carreggiata del tutto nuova.
L’uscita si collocherà a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla stazione ferroviaria tiggianese.
SVINCOLO 5: ALESSANO – CORSANO E LA FERROVIA
Tra il quarto ed il quinto svincolo si snoda una trama stradale alquanto articolata, che conta anche la presenza dei binari ferroviari. Torna utile un ulteriore zoom sulla zona: pubblichiamo (in basso) il progetto dello svincolo 5, cui si arriva uscendo dal territorio di Tiggiano.
Qui la statale incrocerà la provinciale 80 Alessano-Corsano (C).
Per scongiurare l’intersezione coi binari verrà realizzato un sottopasso (D).
Per le uscite, quindi, sorgerà una viabilità ai lati della carreggiata.
Come mostra la mappa (la prima in alto), ci saranno due nuove rotatorie sulla Alessano-Corsano.
Quella ad est dell’attuale dosso convoglierà il traffico anche lungo la provinciale 188, la strada con cui il Capo di Leuca ha preso confidenza nel periodo del senso unico di marcia lungo via Regina Elena a Corsano.
Alla rotatoria ad ovest invece, lato Alessano, si aggancerà anche una nuova bretella (E), una lingua di asfalto che la metterà in comunicazione con il precedente svincolo, quello di Tiggiano.
SVINCOLO 6: CI PORTA DA DON TONINO
Rotolando verso sud, tangendo ma non toccando l’abitato corsanese, la nuova Maglie-Leuca entra in contatto con la provinciale 210.
È la strada che gli alessanesi percorrono per raggiungere la splendida Marina di Novaglie.
Lo svincolo 6, da cui inizia il quarto tratto di questo stralcio, si collocherà in aperta campagna ma molto vicino al cimitero di Alessano (quindi alla tomba di Don Tonino Bello, meta di considerevole turismo religioso); in prossimità della strada che si arrampica su Montesardo ed a pochi metri dall’incrocio con la Corsano-Gagliano, che sarà servito da una nuova e più sicura rotatoria.
SVINCOLO 7: TRA LA SUD SALENTO E LA STAZIONE DI GAGLIANO
Il percorso continua sinuoso attorno ai centri abitati, evitando San Dana (frazione di Gagliano) ed andando a ricalcare un pezzo del già esistente tracciato della sp81 tra Corsano e Gagliano.
In prossimità del curvone prima del distributore Apron, la provinciale diventerà per alcune centinaia di metri la nuova 275.
Salvo poi dividersi nuovamente con una virata ad ovest prima di Gagliano: la nuova carreggiata incrocerà ancora i binari, sfiorerà il calzaturificio Sud Salento e, avvicinandosi alla stazione di Gagliano, taglierà la vecchia 275.
Proprio da questo incrocio tra vecchio e nuovo prenderà vita lo svincolo 7 “Gagliano del Capo nord”.
SVINCOLO 8: CASTRIGNANO DEL CAPO (E PATÙ)
A questo punto la strada correrà tra l’abitato gaglianese e quello di castrignanese.
Sarà permesso uscire allo svincolo 8 “Castrignano del Capo”. Ci troveremo, in pratica, sulla sp 351: da un lato ci dirigeremo a Castrignano del Capo (o a Patù), dall’altro entreremo a Gagliano da sud (cimitero e nuovo Eurospin).
SVINCOLO 9: DE FINIBUS TERRAE
Non è finita: c’è il quinto ed ultimo tratto che, costeggiando Salignano con un’opera del tutto nuova e viaggiando a sinistra (ad ovest) del vecchio tracciato, ci condurrà all’ultimo svincolo, il numero 9: “Gagliano del Capo – sud”.
Siamo alle porte di Santa Maria di Leuca, il punto in cui già oggi la 275 si passa il testimone con un’altra statale, la 274 Gallipoli-Leuca.
È qui, con un adeguamento dell’intersezione esistente, ai confini della terra, che è attesa una delle opere più discusse della storia del Salento.
È qui che, si spera presto, termineremo di fantasticare su questo tracciato che immaginiamo da oltre 30 anni.
Approfondimenti
Ulivi e vigneti: secoli di storia che non devono finire con la xylella

di Hervé Cavallera
Chi nel corso della storia visitava il Salento rimaneva colpito dalla distesa di olivi e dalla qualità dell’olio, su cui nel Settecento ben si intratteneva il gallipolino Giovanni Presta (1720-1797), del quale nel 1988 e nel 1989 ho ripubblicato le opere.
Accanto all’olio ecco aggiungersi la produzione del vino, tra cui di particolare pregio è il “primitivo”, il cui nome risale a don Francesco Filippo Indellicati (1767-1831) di Gioia del Colle, il quale ritenne che un particolare vigneto della sua terra si potesse già vendemmiare ad agosto.
La distesa degli oliveti e dei vigneti è stata da sempre un grande spettacolo di bellezza, spettacolo che, al tempo stesso, veniva a simboleggiare due elementi fondamentali nella nostra vita: l’olivo, rappresentando il rinnovamento e la forza vitale; la vite, il benessere e l’abbondanza.
L’olivo, inoltre, è stato sempre inteso come simbolo di pace.
Da tempo la distesa di olivi non è più tale. A partire dal 2013 la Xylella ha distrutto migliaia e migliaia di alberi d’olivo e l’infezione, che ha in primo luogo investito il Salento, si è col tempo estesa sino alla Terra barese.
Così chi percorre le nostre campagne non può che constatare la tristezza degli oliveti in rovina e moltissimi alberi sono stati sradicati. Si è avuto pertanto un eccezionale danno sia ambientale e socio-economico sia storico-paesaggistico.
Alberi plurisecolari sono stati distrutti e la produzione di olio ne ha pagato le conseguenze, non solo con l’aumento del prezzo per quello esistente, ma anche con l’importazione di olio proveniente da altre parti del mondo.
Non è questa la sede per soffermarsi sulla provenienza del batterio e sul modo su cui l’epidemia è stata affrontata, sicuramente sottovalutandola e intendendola come un fenomeno locale, con devastanti conseguenze soprattutto per il Salento ma anche – di conseguenza – per la Puglia in generale.
E la questione non è del tutto chiusa, nonostante qualche studioso sostenga che il peggio è passato e che si può andare incontro alla graduale ripresa, che comunque comporterà non poco tempo data la qualità e quantità del disastro.
E non è finita. Mentre ancora non si riesce a uscire dal malanno, ecco che si annunzia un altro. Un ceppo della Xylella fastidiosa tende a colpire non solo alberi come le querce, i mandorli e gli oleandri, ma anche le viti e pare che nel Barese alcuni vigneti di uva da tavola siano risultati infettati dal batterio, aprendo un altro drammatico scenario.
Sembra di assistere allo sfasciarsi di una tradizione millenaria: la forza vitale (l’olivo) viene meno e dilegua il benessere (i vitigni).
È la realtà di un presente frantumato che non riesce a far fronte con lucidità alle novità che irrompono e devastano e rendono incerta quella che era una garanzia plurisecolare.
La pace come gli olivi viene meno e si estende la violenza sotto forme diverse, mentre si è incapaci di ogni saggio controllo. Tale potrebbe essere una metafora del nostro tempo, una trasposizione simbolica di immagini che rappresentano la situazione dell’esistente.
NON E’ TEMPO DI CONTRAPPOSIZIONI
Al di là di questa considerazione sul mondo che viviamo, resta, prosaicamente si potrebbe forse dire, il problema dell’immediato, che è quello di un’epidemia che ha colpito gli olivi e che rischia di estendersi con altrettanta pericolosità sui vitigni.
E l’affrontare la battaglia spetta ai politici, agli studiosi, agli esperti. E tutti devono agire in una comune simbiosi, ben sapendo che in gioco sono più cose: la bellezza delle campagne, la qualità (dei prodotti), l’economia (il guadagno che si ricava dall’olio e dal vino).
Ma sono anche in gioco l’avvedutezza di coloro che gestiscono la cosa pubblica e le conoscenze tecniche e scientifiche di tanti specialisti.
E devono venir meno le contrapposizioni, soprattutto quelle che impediscono dei piani organici aperti però a continua verifica. Non si deve dimenticare che nel passato non lontano si è considerata la diffusione della Xylella fastidiosa un mero fenomeno locale, trascurando peraltro il fatto che, se anche così fosse stato, il danno non sarebbe stato comunque insignificante.
Come accade che ci siano tuttora pareri diversi intorno all’abbattimento delle piante. Per questo bisogna non solo studiare come arginare e bloccare la diffusione del batterio, ma occorre valutare continuamente gli interventi e modificarli secondo la bisogna.
E non sono sufficienti, per quanto necessarie, unità operative provinciali e regionali. È opportuno che la questione sia portata a livello più alto e superi le barriere di ogni tipo che possono sorgere allorché si manifestano interventi pubblici. Occorre effettivamente un coinvolgimento generale, che al tempo stesso sappia articolarsi secondo le diverse competenze e con opportune strategie oculatamente dirette.
Nell’operare insieme, politici, tecnici, studiosi, proprietari terrieri e così via, si riscopre inoltre il senso di una comunità, il ricompattarsi della stessa.
Con un’espressione latina (ed ecco il rinvio a un mondo – quello dell’antica Roma – che non deve svanire in quanto ne siamo figli) Iam proximus ardet Ucalegon (già brucia il vicino palazzo di Ucalegonte) e le parole di Virgilio (Eneide, libro II, versi 311/312) spiegano molto bene che il danno non riguarda solo gli altri, ma anche noi stessi in quanto, come le fiamme del palazzo attiguo investono il nostro, la rovina della terra in cui viviamo, pur senza esserne proprietari, ci investe tutti.
E il bene pubblico va oltre ogni divisione paesana, territoriale, politica.
Approfondimenti
La cappella e la cavalla devota che scoprì la tela della Madonna
Nel rione di Caprarica. Con i fondi dell’8 per mille recuperata la chiesa nella sua interezza: ogni elemento originario (mensa, tabernacolo, tele) è stato oggetto di attente operazioni di restauro…

di Luigi Zito
Era il 1651, in una uggiosa giornata di novembre, i frantoi di Tricase giravano a tempo pieno, si dovevano molire le olive, spremerle e produrre quello che per secoli è stato l’oro del Salento: l’olio.
Una stanca cavalla, legata e bardata di tutto punto, faceva girare le macine che servivano alla spremitura delle olive.
Alcuni contadini, che vegliavano il logorio dell’animale, si resero conto che, ogni qualvolta percorreva un determinato tratto del frantoio ipogeo, la cavalla aveva un sussulto, come zoppa si inchinava davanti a qualcosa.
Intrigati da quel fenomeno, i nachiri, decisero di scavare in quel punto indicato dall’animale e, come per miracolo, rinvennero una tela della Madonna di Cassiobe.
Fu così che si decise di costruire in quel luogo preciso una cappella dedicata alla venerazione della Madonna. Oggi, dopo 4 secoli, possiamo asserire che in parte quella leggenda rispecchiava la realtà.
Infatti, durante i recenti lavori di rifacimento della pavimentazione interna della cappella, è stata rinvenuta l’imboccatura di un frantoio (in parte crollato) collocato proprio sotto la chiesa.
La Chiesa dell’Immacolata e del SS. Sacramento, oggi sede della Congregazione dell’Immacolata Concezione (priore Claudio Ruberto, oggi conta 130 iscritti), è sita nel rione di Caprarica di Tricase, persa tra le viuzze del centro storico, inglobata nel tessuto edilizio circostante.
È una chiesa a unica navata, edificata presumibilmente attorno alla metà del XVII secolo, come attesta il libro dei defunti della parrocchia, che fa risalire la prima inumazione al 4 aprile 1654.
LA CAPPELLA NEGLI ANNI
È frutto di due interventi edilizi di ampliamento: il primo nel 1922 quando venne costruita una sagrestia; il secondo nel 1967 vide la demolizione e ricostruzione della stessa, una sala riunioni e un campanile a torre (completato nel 1973).
Fino al 1967, nella chiesa era presente un unico altare a muro con il tabernacolo e al di sopra, posti in successione, la tela della Madonna di Cassiobe e quella della Vergine Immacolata con i quattro Santi protettori della Confraternita.
Tra il 1967-1970, con i lavori di ampliamento, si attuò lo smembramento di tutto l’apparato dell’altare a muro, dislocando gli elementi costitutivi (mensa, tabernacolo e tele) in posizioni differenti all’interno della chiesa.
L’ultima funzione religiosa fu celebrata il 24 marzo 2013, da don Eugenio Licchetta. Successivamente, gravi problemi strutturali portarono a interdire il culto e a chiudere la chiesa.
Il parroco di allora, don William Del Vecchio, in accordo con la Confraternita dell’Immacolata, nel 2015 intraprese l’iter per il recupero e il restauro della chiesa e affidarono i lavori agli architetti Agnese Piscopiello e Francesco Pala.
La Conferenza Episcopale Italiana, con i fondi dell’8 per mille, finanziò il progetto e si procedette a recuperare la chiesa nella sua interezza.
Il 22 maggio 2020 iniziarono i lavori di restauro, portati a compimento anche grazie alla generosità dei fedeli.
Nell’avvicendarsi di parroci nella parrocchia di Sant’Andrea, è doveroso citare anche l’impegno dapprima di don Luigi Stendardo che diede il via ai lavori, e poi quello di don Salvatore Chiarello, l’attuale parroco, che ha seguito e partecipato alle varie fasi di realizzazione delle opere fino alla loro conclusione.
Durante la fase di rimozione della pavimentazione, sono venute alla luce strutture di antica origine, in particolare: un antico pavimento in cocciopesto, nelle prime due campate della chiesa; la presenza di un ossario murato con lastre di pietra; la fondazione in pietrame della muratura di fondo della chiesa (prima che venisse eseguito l’ampliamento del 1922); la presenza di un frantoio ipogeo scavato nella roccia che si sviluppa al di sotto della chiesa, la cui imboccatura è stata segnalata mediante la realizzazione di una botola nell’attuale pavimentazione.
Ogni elemento originario (mensa, tabernacolo, tele) è stato oggetto di attente operazioni di restauro a cura dei restauratori Ludovico Accogli e Alessandra Muci, che hanno riportato alla luce le decorazioni e le cromie originarie ricoperte e dimenticate.
Il 5 dicembre 2024, alla presenza del vescovo mons. Vito Angiuli, del sindaco Antonio De Donno e di tutta la comunità, la chiesa è stata riaperta al culto.
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