Connect with us

Approfondimenti

Santa Cesarea medita la rinascita

Proposta da 60 mln per rifare l’intero impianto ricettivo del paese con nuovi hotel, strutture ed infrastrutture ecosostenibili: Comune, Regione e Terme ci pensano

Pubblicato

il

Santa Cesarea respira l’aria di una nuova era per le terme e per tutto ciò che le circonda. Una rivoluzione pronta a prendere la forma (e la sostanza) della proposta (e dei milioni) che la società Ge.Ter. ha portato al tavolo della Regione, del Comune e delle Terme.


Con un fondo di investimento garantito dalla Horwatt Htl, leader a livello internazionale del settore dell’Hospitality consulting (consulenze professionistiche nel campo alberghiero), la GeTer punta a investire 60 milioni di euro in un progetto di rifunzionalizzazione dell’intera struttura termale di Santa Cesarea, con tanto di nuovi residence ed hotel di lusso. Un piano che prospetta una ricaduta sul turismo non solo sul piccolo centro cesarino, ma su tutto il Salento, trasformando l’area in un punto di richiamo internazionale, in grado di competere con località termali di tutto il mondo.


L’idea della società proponente, che già gode del piano di fattibilità, passa per una riqualificazione dell’Albergo Palazzo, del suo stabilimento termale, del Lido Caicco, delle discese a mare, delle strutture sportive adiacenti al nuovo centro termale (da rendere un fiore all’occhiello della rieducazione psico-motoria) e delle strutture termali Gattulla e Sulfurea. A ciò si affianca un’area ricca di nuove strutture ricettive: un residence con mono o bilocali ed hotel a 4 e 5 stelle (aperti 7 mesi su 12), più uno a 3 stelle sempre aperto. Da rivedere, di conseguenza, anche le infrastrutture necessarie per sostenere impianti di questo genere. Primi su tutti i collegamenti. Ecco allora l’idea di una nuova strada che permetta l’accesso al nuovo centro termale, deviando il traffico veicolare ed evitando che passi per il centro cittadino. Con essa, nuovi collegamenti su binario, rapidi e frequenti, tra centro storico e l’area di alberghi e centro termale.

Un’abbuffata di novità per le cui GeTer propone al Comune una gestione con concessione a canone annuale. Gli Enti preposti stanno già valutando il progetto, tenendo conto non solo della forte spirito avanguardistico che lo caratterizza, ma anche della sua ecosostenibilità: tutte le innovazioni  suggerite hanno infatti un impatto con il territorio pari a zero.


Approfondimenti

Una volta i salentini emigravano, ma poi tornavano

Andata e ritorno. Come tanti Ulisse che dopo numerose peripezie tornavano alla loro Itaca. Per costruire, edificare, migliorare sé stessi e il paese, per una vita migliore per tutti

Pubblicato

il

di Hervé Cavallera

Un problema che riguarda il nostro presente è una massiccia immigrazione che in questi ultimi anni ha inciso non poco sulla vita delle nostre città ed è un fenomeno che ci ha colti quasi inaspettatamente perché in fondo, specialmente nel Meridione, ci si sentiva una terra di emigranti e non di “accoglienti”.

Sotto tale aspetto gli studiosi sono d’accordo a dividere la vicenda della emigrazione italiana, dall’Unità (1861) ad oggi, in tre periodi: la grande emigrazione che arriva sino all’avvento del fascismo; l’emigrazione europea che va dai primi anni ’50 alla fine degli anni ’70; la nuova emigrazione che inizia col secolo corrente.

LA GRANDE EMIGRAZIONE

La prima emigrazione, causata dalle condizioni miserevoli in cui viveva buona parte della nazione, peraltro analfabeta, riguardò uno spostamento dei nostri verso altri continenti come l’Africa del nord, ma soprattutto l’America settentrionale e meridionale.

Il fascismo rallentò in parte il processo di emigrazione anche per le numerose opere pubbliche del periodo che furono peraltro utili per impegnare una notevole quantità di manodopera.

Con il dopoguerra, ci fu una consistente emigrazione verso Paesi europei come Germania, Svizzera, Belgio, Francia. L’emigrazione del presente – certamente minoritaria come numero complessivo – riguarda per lo più giovani laureati che cercano una maggiore fortuna all’estero.

Si tratta di una storia complessa che meriterebbe una lunga trattazione, ma chi ha potuto osservare la seconda fase, quella appunto dell’emigrazione in Europa, non può che far venire alla mente particolari annotazioni.

Se l’emigrazione verso le Americhe, infatti, rappresentò per gli italiani del tempo un distacco definitivo, tanto che oggi molti noti personaggi statunitensi si trovano a “scoprire” antenati nella nostra Penisola, l’emigrazione europea, pur scaturita dalle difficoltà economiche derivate dalla guerra, ebbe da subito la caratteristica di uno spostamento relativamente temporaneo.

Innanzitutto ci si spostava in un continente di cui ci si sentiva di far parte e non vi era l’oceano a rendere ben difficile il ritorno, anche temporaneo, per rivedere e salutare familiari e amici; era inoltre una partenza vissuta non con lo spirito d’avventura, sia pure sofferta, come accadeva alla fine dell’Ottocento o ai primi del Novecento, ma con la certezza di un inserimento nel mondo del lavoro che avrebbe consentito quanto meno una tranquillità economica e quindi una serenità familiare.

NEL DOPOGUERRA

Stati come la Svizzera e la Germania, in effetti, erano disposti ad accogliere nostri conterranei in funzione del loro bisogno esistente di manodopera. Quindi l’inserimento nel mondo del lavoro era garantito.

D’altra parte erano gli anni del boom economico e vi fu una forte emigrazione da quella parte della Penisola prevalentemente agricola (il Mezzogiorno appunto) non solo all’estero, ma anche verso le città italiane più industrializzate.

Basti ricordare il cosiddetto “triangolo industriale”, ossia l’area compresa tra Torino (sede della Fiat), Milano (con tutto il suo sviluppo immobiliare, industriale e commerciale) e Genova (il grande porto commerciale).

In tale dinamica, apparve subito chiaro che i rapporti con i paesi di origine erano mantenuti. Non solo: la stabilità economica acquisita all’estero (ma anche in alta Italia) consentiva di poter mettere da parte del denaro in modo da aiutare i familiari che erano rimasti nel paese natio o da utilizzare per loro lecito profitto in vista di un ritorno.

Chi ormai non è più giovane ricorda molto bene tanti emigrati che, come laboriose formiche, raccoglievano denaro che poi investivano nella propria terra per costruirsi una casa ove risiedere una volta tornati dall’estero o dall’Italia del nord.

Il paese di origine rimaneva un po’ come il luogo della nostalgia di una giovinezza lontana e degli affetti troncati, un luogo dove trascorrere gli anni una volta pensionati.

E si può constatare l’ampliamento dei nostri paesi con la nascita di nuovi quartieri, anche se con una urbanistica non sempre soddisfacente in quanto ognuno ha edificato su ciò che aveva e le amministrazioni comunali non hanno sempre adeguatamente considerato lo sviluppo della viabilità in funzione della crescita dei mezzi di comunicazione.

Sotto tale profilo, spesso è mancata una visione d’insieme dell’espansione delle varie cittadine, ma questa è un’altra storia e non riguarda gli emigranti, bensì gli amministratori.

Quello che va ricordato è invece il forte attaccamento alla terra natale, sì da ritornarci non solo periodicamente, a Natale, a Pasqua e durante le ferie estive, ma al termine del proprio percorso lavorativo. E c’era in quei volti un senso di soddisfazione.

IL RICHIAMO DELLA PROPRIA TERRA

Erano partiti poveri e molte volte senza casa ed ora tornavano in una casa di loro proprietà; avevano del denaro e una pensione dignitosa.

spesso utilizzavano, per darsi delle arie umanamente comprensibili, un tedesco o un francese approssimativi per far vedere a coloro che non avevano mai viaggiato che essi, invece, conoscevano il mondo e le lingue.

Ma quello che soprattutto può oggi sorprendere è che tornavano a voler essere quello che sentivano di essere: dei cittadini salentini, che dovevano risiedere nel proprio paese di nascita.

In questo si rivelava un attaccamento alla propria origine che può essere spiegato particolarmente dalla natura degli affetti.

Altrove avevano avuto quella fortuna economica che il paese natale non aveva loro consentito, ma essi percepivano che la loro origine e il senso della loro esistenza erano proprio in quel contesto da dove erano dovuti espatriare e a cui non potevano sottrarsi: erano come tanti Ulisse che dopo numerose peripezie tornavano alla loro Itaca.

E tornavano per costruire, per edificare, per migliorare sé stessi e il paese: per una vita migliore per tutti. E si mandavano i figli a scuola, per far loro conseguire un diploma o una laurea.

Con il ritorno degli emigrati i paesi crescevano e in vario modo si arricchivano, e le generazioni si ritrovavano e si intesseva e si rafforzava una comunità.

Ed è una lezione che oggi, in un tempo in cui spesso si cede al proprio individualismo, non bisogna in alcun modo dimenticare, bensì sottolineare se non si vuole svanire nel dimenticatoio di una realtà senza storia e senza affetti.

Continua a Leggere

Alessano

«È stata una lunga avventura»

Emigranti, il forum. Uccio Negro di Montesardo. Per tutti “il professore”. Gli inizi in fabbrica, il lavoro in consolato e alla scuola italiana. Poi la politica e l’abilità di mettersi nei guai ed uscirne

Pubblicato

il

La storia di Antonio Negro di Montesardo (Alessano) si presterebbe bene alla scrittura di un copione per un film avvincente.

Gli ingredienti ci sono tutti: avventura, thrilling, sliding doors e persino una certa vena di comicità per come il destino si è divertito ad incastrare gli eventi della sua vita.

SOLO UN VIAGGIO DI PIACERE

Ma andiamo per ordine.

Antonio, anzi Uccio, come lo chiamano tutti, è del 1947: «Era il 1968, avevo 21 anni, quando un amico mi invitò ad accompagnarlo a Basilea, in Svizzera. Accettai ma doveva essere solo un viaggio, l’avventura di un giovanotto. Nei miei programmi, dopo aver accompagnato il mio amico, sarei tornato a casa. Era d’inverno e c’era la neve. Mi feci lasciare a Zurigo dove avevo dei parenti. Una volta lì, visto che c’ero, provai a lavorare come tornitore in una fabbrichetta, trovai un letto in un dormitorio ed ottenni il permesso di soggiorno stagionale. Scoprii presto che in quella fabbrica lavoravano anche altri di Montesardo. Io, però, non durai più di un paio di mesi perché la mattina… non riuscivo ad arrivare in orario! E loro sugli orari (sorride) sono molto precisi».

AL CONSOLATO

«Così mi licenziai», prosegue, «ed iniziai a fare la vita da clandestino. Situazione prolungatasi per almeno sei mesi, durante i quali dovevo nascondermi nelle baracche o dove capitava. Durante quel periodo ebbi modo di conoscere un po’ di gente. Ma, vedi com’è il destino, nonostante la mia clandestinità, fui assunto al Consolato Generale d’Italia di Zurigo! Così ho lavorato… clandestinamente al Consolato nell’ufficio passaporti per gli italiani. Agli altri facevo il passaporto ma io non potevo averlo».

All’inizio Uccio, per recarsi al lavoro, si fece prestare un vestito «decente»: «Il Console seppe che ero diplomato magistrale con il titolo di “Maestro”, così fui preso per tre mesi, il periodo di prova per poter fare da front office con gli italiani».

E qui parte un altro aneddoto: «Gli italiani in età di leva obbligatoria, con regolare permesso stagionale o annuale, che dovevano tornare in Italia per pochi giorni e poi rientrare per lavorare, dovevano avere l’autorizzazione del consolato, altrimenti alla frontiera la polizia li beccava e li mandava a fare il militare. Oppure, li denunciava come disertori. Gli altri impiegati su questo erano severissimi e, se anche la minima cosa non quadrava, negavano il visto. Io, invece, lo concedevo sempre e a tutti, perché mi rendevo conto dei sacrifici che stavano affrontando da emigrati per dare da mangiare alla famiglia. Avrei mai potuto rovinarli, mandandoli a fare il servizio di leva? Tanto che poi avremmo fatto una battaglia con il Ministero della Difesa italiana proprio per tutelare gli italiani che lavoravano oltre confine ed erano chiamati per il servizio militare».

Tornato in Salento, a distanza di 30-40 anni, Uccio ha «incontrato uno di quelli che veniva in Consolato per il visto. Mi ha raccontato che, per non perdere tutti la giornata di lavoro, mandavano in avanscoperta uno di loro a cui pagavano la benzina e questi avrebbe telefonato in un determinato orario ad un ristorante per dire ai compaesani chi c’era in ufficio. Se c’ero io sarebbero venuti, altrimenti avrebbero rimandato».

Nel periodo trascorso in Svizzera da clandestino, Uccio è stato «beccato due volte dalla polizia. La prima volta mi hanno preso per la collottola e messo sul treno per l’Italia. Arrivato a Chiasso, però, sono sceso, ho cambiato e binario e risalito sul treno che andava in direzione opposta. La seconda volta invece ero con degli amici, tra cui uno svizzero che conosceva la mia situazione. Arrivarono degli agenti in borghese e cominciarono a parlare con il loro connazionale. Lo informarono che erano lì per me e che avrebbero dovuto impacchettarmi e spedirmi in Italia: quel mio amico perorò la mia causa, spiegando agli agenti che io gli avevo fatto tanti favori e chiese loro di farne uno a me. Così offrì loro delle birre e questi andarono via, come se non mi avessero mai trovato».

COME DIVENNI “IL PROFESSORE”

In questo modo Uccio poté continuare la sua attività al Consolato. Finchè non ebbe a sapere che alla scuola italiana di Zurigo assumevano del personale: «Lo riferii al Console, feci domanda e fui assunto. Mi fecero il permesso e, da lì, iniziò anche la mia attività sociale, soprattutto da sindacalista e attivista politico nel Partito socialista».

AL FIANCO DEI CILENI

Da quel momento ha iniziato a frequentare determinati ambienti, compreso “Il Cooperativo”, «il ristorante dove andavano a mangiare gli esuli socialisti, dall’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini, fino ad Ignazio Silone (ex membro dell’Assemblea costituente della Repubblica italiana, scrittore, giornalista, politico, saggista e drammaturgo), che ho avuto la fortuna di conoscere di persona».

Altro aneddoto della sua storia di sindacalista in Svizzera: «Nel 1973 ci fu il golpe di Pinochet in Cile ed anche nella Confederazione elvetica arrivarono cileni in fuga dal loro Paese. Come dirigente del Partito Socialista Italiano, custodivo le chiavi dei locali della Federazione, nei pressi della stazione di Zurigo. Un compagno dirigente mi avvertì che mi stavano cercando dei cileni. Gli dissi di dare loro il numero di telefono di casa mia. Mi chiamarono e, tra spagnolo e italiano, combinammo un incontro. Da premettere che la Svizzera concedeva accoglienza ai profughi esiliati politici, ma vietava loro di fare politica. Nonostante questo, la delegazione cilena mi chiese un posto sicuro dove incontrarsi segretamente. In pratica volevano ritrovarsi nei locali della Federazione. Dopo un’iniziale perplessità mi confrontai con Angelo Ferrara, amico carissimo che era anche il segretario del partito. Lui non ebbe dubbi: dovevamo dargli il locale. Mi raccomandai che la cosa fosse discreta e indicai loro la cassetta dove avrei lasciato la chiave che “ufficialmente” non avevo mai dato loro. Dopo 2-3 mesi, era inizio estate del 1974, i cileni mi confidarono la loro intenzione di uscire allo scoperto e fare politica alla luce del sole. Per questo volevano che io prenotassi per loro, ma a nome mio, una grande sala. Pensatoci su, mi ricordai di un compagno, Saverio Fortunato, originario di Cosenza ma cresciuto in Svizzera, noto per la sua la capacità di sparire dalla circolazione per lunghi periodi. Lo contattai e gli dissi di “evaporare” fino a quando le acque non si sarebbero calmate. Andai alla Casa d’Italia di Zurigo, la scuola italiana dove insegnavo, e prenotai la sala grande per il 27 giugno a nome di Saverio Fortunato, dicendo all’usciere che serviva ai giovani federalisti di cui il mio amico era segretario. Coi cileni mi raccomandai di “non fare casini” (testuale, NdA). La sera del 27 giugno, un’oretta prima dell’orario concordato, feci un giro in zona e non ci misi molto a scoprire che il posto pullulava di polizia sia in borghese che in divisa. Già sapevano tutto!

Intanto i cileni, arrivati da tutta Europa, diedero vita alla loro assemblea. Nel frattempo, l’usciere mi chiamò avvertendomi che il Console Generale mi voleva al telefono: “Professore”, mi disse allarmato, “sa dov’è Saverio Fortunato? Lo sta cercando la polizia!”. Cascando dalle nuvole, gli promisi che, se avessi saputo qualcosa, lo avrei avvertito. All’indomani i giornali di tutto il Mondo titolavano a nove colonne “Cileni Liberi”. La stampa mondiale, non solo svizzera, dopo quella assemblea, si era schierata con loro. E questa cosa, tutt’oggi mi riempie di orgoglio».

IL CIRCOLO DEGLI EMIGRANTI

Tornato in Italia, colui che ancora tutti chiamano professor Uccio Negro, ha smesso di fare attività politica ma non di spendersi per gli altri, che oggi sono gli ex emigranti. È socio fondatore e componente del Direttivo del Circolo emigranti ed ex emigranti di Alessano e Montesardo (attivo dal 2017, presidente Cosimo Martella e un centinaio di associati, condivide la sede con l’Apa, Associazione per Alessano, con cui collabora nella promozione della cultura) e, in questa veste, rilancia l’iniziativa già avviata in Veneto ed Emilia-Romagna: «Alcune Regioni hanno approvato una legge che prevede l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado della storia dell’emigrazione italiana nel mondo. Vanno bene le nostre visite alle scolaresche ma, nonostante l’impegno delle associazioni, questo non può bastare».

📍 Segui il GalloLive News su WhatsApp 👉 clicca qui

Continua a Leggere

Approfondimenti

«Negli anni ’70 il clandestino ero io»

Emigranti, il forum. La testimonianza di Antonio Vantagiato di Ugento. La dritta: «Appena arrivano i doganieri, scendi dal treno e risali sul primo vagone»; «Un escamotage che faceva di me un’emigrante clandestino agli antipodi»

Pubblicato

il

Ci sono storie che meritano di essere raccontate perché sono parte della storia di ognuno di noi e ripercorrono usi, costumi e necessità delle epoche vissute.

Come quella di Antonio Vantagiato, 73 anni oggi, per tutti il reporter di Ugento.

«Era il 1958», racconta, «quando mio padre passò a miglior vita. Lasciò la mamma con tre figli da crescere. Io avevo appena otto anni. Mia madre lavorava nei campi ed io dovetti occuparmi di mio fratello piccolo. È stata molto importante la figura di mio nonno (Cavaliere di Vittorio Veneto), anche grazie a lui non ci è mai mancato alcunché».

«Finita la scuola, quella che le circostanze ci consentivano di frequentare», prosegue perdendosi nei ricordi, «a soli 11 anni portai a casa la mia prima paga: 150 lire per una giornata di lavoro! Non dimenticherò mai l’emozione di mia madre…».

Crescendo, si doveva decidere che fare della propria vita. E, quasi sempre, in quegli anni, la scelta era obbligata, emigrare: «Avevo 17 anni, un mio caro zio, già da anni impegnato a lavorare all’estero, mi portò con sé in Svizzera».

Il viaggio non fu propriamente lineare e qui casca l’aneddoto: «Arrivati alla frontiera di Chiasso, mi diede la dritta: “Appena arrivano i doganieri, scendi dal treno e risali sul primo vagone in testa prima della locomotrice”.  Un escamotage che faceva di me un’emigrante clandestino agli antipodi».

Non fu tutto rose e fiori neanche la permanenza oltralpe: «Tre mesi di duro lavoro nei cantieri per non parlare delle baracche gelide nelle quali eravamo accampati; per avere il gas per cucinare si introduceva una moneta nella apposita fessura che faceva scattare l’interruttore meccanico e si poteva avere a disposizione per un determinato tempo il necessario al fabbisogno. Se non avessi avuto spiccioli non avrei mangiato. A fine stagione, dopo tre mesi di lavoro, comunque, portai a casa 120mila lire. Per non farmi derubare durante il viaggio, cucii il denaro nelle tasche. L’anno dopo feci lo stesso».

Parallelamente al lavoro estivo Oltralpe, nel 1967 e nel 1968, durante l’inverno, ad Ugento, ha frequentato il Professionale di Radio Tecnico. Circostanza che ha cambiato la sua vita: «Grazie ad un accordo trasversale tra la Germania e l’Ufficio del Lavoro provinciale, i migliori poterono andare a lavorare in Germania. Nel 1970, dopo aver fatto le visite mediche a Verona, mi spedirono a Baknang, nel land del Baden-Württemberg. Fui assunto da una multinazionale che produceva apparecchiature per trasmissioni intercontinentali commissionate dalla Nasa. Nel 1972 mi trasferii a Norimberga per lavorare con la Siemens. L’anno dopo sono andato alla Grundig, dove si producevano apparecchiature di intrattenimento, in particolare le primi Tv a colori. Dopo qualche tempo, mi trasferirono nel reparto dove si producevano i primi videoregistratori. Partecipai ad un corso di formazione e mediante un concorso interno, diventai responsabile delle apparecchiature di controllo. Restai a Norimberga fino al 1986».

Poi il ritorno nel Salento e, dopo una breve pausa di riflessione, iniziò la sua avventura da reporter… d’assalto, in una televisione locale che in quegli anni andava per la maggiore.

Nel corso delle sue scorribande, oltre a portare a termine i servizi ordinari commissionati dall’emittente per cui lavorava, è stato protagonista di due scoperte archeologiche («Il Dolmen di Spongano e la Cava messapica a Diso»), riuscì ad immortalare una Supernova (esplosione stellare) poi andata in onda al telegiornale.

Però, non ha mai dimenticato la sua esperienza lontano da casa, infatti ha scritto, prodotto e girato il cortometraggio (protocollato alla Regione Puglia), dal titolo “L’Emigrante”, che racconta il dramma di una famiglia «quando il marito partiva per lavorare all’estero».

📍 Segui il GalloLive News su WhatsApp 👉 clicca qui

Continua a Leggere
Pubblicità
Pubblicità

Più Letti