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Arte vecchia, scarpe nuove: la scalata della “Zaminga”

L’intervista – “Decollati senza l’aiuto di nessuno: nei nostri confronti totale disinteresse”

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Da quasi un anno, nella zona industriale di Tricase, tre bandiere sventolano all’ingresso di un capannone. Sono quella italiana, quella europea e quella degli Emirati Arabi Uniti. Sormontano un cancello che si chiude alle spalle una certezza e un po’ di mistero. In paese lo sanno tutti: lì c’è un calzaturificio. In quel capannone Tricase è tornata a parlare una lingua che conosce, ma che sembrava morta e sepolta. Quello stesso tetto sotto il quale un tempo muoveva i primi passi l’epopea di Adelchi Sergio, oggi è il campo base della scalata dei fratelli Zaminga. È sia punto di arrivo che di partenza di una storia che, a dirla tutta, più che farsi avvolgere dal mistero, si presta al chiacchiericcio per i suoi intrecci col passato. E a Tricase, che a cavallo tra vecchio e nuovo millennio faceva rima con scarpe ed era la terra proprio di Adelchi, non potrebbe essere altrimenti.


Guido Zaminga

Guido Zaminga


Lui non c’entra nulla. È venuto spesso a trovarci e per questo la gente crede che abbia degli interessi nella nostra attività, ma non è così”. È Guido Zaminga a precisare l’estraneità di Adelchi nell’azienda di proprietà sua e dei suoi fratelli Roberto e Giuliano. È lui a ripercorrere con noi la loro storia, partita in tutti i sensi da lontano. Guido è la personificazione del “self made man”, l’icona del sogno americano del ventesimo secolo, la realizzazione personale dal nulla, attraverso il sudore e la perseveranza. Ha imparato a dare del tu al lavoro, iniziando proprio da ragazzino (quasi bambino per la verità), con i suoi fratelli, a lavorare nella filiera Adelchi che lo ha poi portato fino in Bangladesh (“Quando ci andammo noi non c’erano le comodità di oggi: dormivamo in mezzo ai topi”). Ci mostra il suo lato duro e granitico, come se ad un uomo al comando non fosse concesso sorridere. Poi si scioglie e ci racconta, come farebbe ad un amico, come hanno fatto a metter su una realtà che dà lavoro ad 80 persone.


Non ci ha aiutati nessuno, siamo arrivati fin qui da soli: gli unici a darci un briciolo di fiducia sono stati amici e conoscenti che ci hanno aiutati ad acquistare i macchinari facendoci credito. Non abbiamo visto il becco di un quattrino dalle banche e nemmeno il minimo sostegno morale dalla politica”.


Nemmeno da quella locale?


C’è stato un totale disinteresse nei nostri confronti, come dimostra anche l’isolamento che viviamo qui nella zona industriale. Attorno a noi regna il degrado e l’incuria. Non un minimo di illuminazione, di pulizia o anche solo di controllo stradale all’orario di uscita degli operai. Ogni giorno tremo ricordando un incidente che vidi da vicino proprio su questa pericolosa strada tanti anni fa. Cosa costerebbe ai vigili venire a dare un’occhiata al traffico per quei dieci minuti al giorno? Evidentemente la via sotto i riflettori è un’altra (parla dell’altro braccio della zona industriale, quello che conduce alla famigerata maxi rotatoria di Lucugnano), vi hanno fatto un rondò ogni cinque metri! Questo lato invece è diventato un museo abbandonato. La prima domanda che si fa chi viene da fuori è cosa siano questi capannoni dissestati che ci circondano. Io non ci vedo più il passato, ma quello che avrebbero potuto essere”.


Tu cosa ci avresti fatto?


Una zona industriale gestita dal Comune. Mi viene da ridere a pensare che Tricase ha acquistato l’Acait. Non ho ancora capito a cosa è servita quella spesa. Non sarebbe stato meglio acquistare questi capannoni e ridargli vita? A Corsano, ad esempio, la zona industriale è di proprietà comunale. Per Tricase sarebbe stata una opportunità, non per farvi impianti di compostaggio o chissà che, ma magari per portare in un’area adatta officine e depositi che affollano il paese e per avere un piccolo introito, derivante dagli affitti, nelle casse pubbliche. Senza contare che avrebbe ridato lustro all’intera area. Noi prima eravamo a Tiggiano, dove la zona industriale è un fiore all’occhiello: pulita, ordinata e controllata”.


È da lì che siete partiti?


No, dall’Albania. Poi siamo rientrati in Italia passando da Miggiano e successivamente da Tiggiano. Fino ad arrivare a Tricase, quasi un anno fa”.


Una scelta di cuore?


La realizzazione di un sogno. Lavorare e dare lavoro a casa nostra era un obiettivo che avevamo in testa da sempre”.


Al netto dei problemi incontrati, da rifare?


Senza dubbio sì, probabilmente però sbagliando. Perché in fin dei conti sono a casa, ma mi sento solo. Ci manca anche il semplice appoggio morale. Io non mi sono mai interessato di politica, ma stupisce che tanto il Sindaco quanto gli assessori non si siano mai fatti vivi. Non lo dico per noi, ma almeno per chi ci lavora”.


Che forza lavoro avete?


Abbiamo 40 dipendenti fissi ed altri 40 impiegati periodicamente. Non possiamo assumere tutti a tempo indeterminato perché anche per noi la certezza del lavoro non è sempre a lungo termine. Poi, paradossalmente, con le leggi odierne si è più agevolati ad assumere chi non ha esperienza che chi è in mobilità. Certo non un aiuto in un periodo così ricco di difficoltà”.


Si mormora in proposito di ritardi nei pagamenti.


So che circolano voci a riguardo e ci tengo a fare una precisazione: non nascondo che le difficoltà iniziali ci hanno portato a qualche ritardo nei primi periodi. Ma pian piano le cose si sono messe a posto, i nostri operai hanno capito, ci hanno visti crescere ed hanno riposto fiducia in noi, standoci vicini”.


Ad oggi, che fatturato fate?


Negli ultimi sei mesi abbiamo sfiorato i due milioni di euro”.


E puntate ad espandervi.


Se mi lasciano stare…(fa riferimento al furto subìto da pochi giorni). Ci hanno rubato un camion e centinaia di paia di scarpe. Un danno da 200mila euro. Non il primo caso: già ad agosto ci avevano fatto ‘visita’. Eppure stavolta ci eravamo assentati solo per qualche ora…


Non ci aspettavamo una commiserazione, ma a onor del vero nemmeno questa reazione: l’imprenditore non si lecca le ferite, il furto non lo mette in ginocchio. Al più, spiega, “mi fa rabbia, perché pesa sul lavoro delle persone. E fa stizzire ancor di più sentirsi presi in giro da qualcuno come è accaduto subito dopo…


Allude all’infelice commento su Facebook dell’assessore Sergio Fracasso (“…mi puzza un po’…”) all’accaduto. Episodio che lo ha portato a scrivere una lettera al politico tricasino tramite le nostre colonne (su www.ilgallo.it) e cui lo stesso Fracasso ha risposto chiedendo scusa per la sua uscita “colorita” ma, a suo dire, priva di dietrologia.


Ci stiamo comunque espandendo”, riprende Zaminga, “abbiamo appena acquistato altri due macchinari da taglio, quelli che ci mancavano per poter fare il prodotto in loco dalla A alla Z, dal disegno della scarpa, fino alla sua forma finale”.


Producete solo qui in Italia?


Siamo in grado di farlo. In parte però lavoriamo ancora in Albania. Alcune tomaie le facciamo lì, perché richiedono più manodopera”.


E la manodopera costa…


Non solo. Costa e scarseggia: si è perso quello zoccolo duro che un tempo lavorava per Adelchi. Alcuni suoi ex dipendenti oggi lavorano per noi, altri invece fanno altro o non lavorano più perché avanti con gli anni. La manodopera sapiente che avevano maturato non c’è più. Anche per questo abbiamo in mente di mettere su una scuola per insegnare ai giovani a cucire a macchina”.


Oggi che mercato servite?


Una fascia medio alta. Lavoriamo con arabi e coreani. Marchi come Capo Italy ed Ecoflex puntano su di noi perché sanno che il Made in Italy offre garanzie che in Paesi come l’Albania non ci sono: lì hanno bisogno di essere monitorati costantemente da tecnici per assicurarsi un lavoro di qualità“. E aggiunge, strizzando l’occhio: In Italia è tutta un’altra cosa…


Noi lo avevamo capito da subito, la sua fabbrica lo comunica in ogni angolo. Nella sala dove ci accomodiamo, troneggia un tricolore di forme di calzature in legno, verniciate di bianco di rosso e di verde. La “Z” gigante di Zaminga, che si erge per le pareti dei capannoni, poggia su una piccola bandiera del Belpaese. La stessa che sventola all’ingresso del calzaturificio, la stessa che fa brillare gli occhi di Zaminga quando si parla di casa, di Tricase, di Italia. Perché in fondo quel tricolore è molto più di una garanzia di qualità. È la spinta che riesce a far largo tra le piramidi ed i mausolei di un paese che non sapeva più cosa significa dare lavoro ad 80 persone. È il motore vero che può alimentare la scalata di un “self made man” in un sogno tutto salentino. Altro che American Dream…


Lorenzo Zito






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Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..

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di Hervé Cavallera

Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.

Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.

Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.

Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.

Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.

Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.

Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).

È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.

Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.

Festa o vacanza?

Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.

Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.

Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.

È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?

Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.

Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.

Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.

E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.

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Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

PER MESCIU PIPPI, CUSTODE DELL’ARTE EDILIZIA CLICCA QUI

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