Approfondimenti
Comitati feste per cosa? Devozione o occasioni per eventi, sagre, fiere e lucro?
Far partecipare fisicamente e coinvolgere in una festa diventa anche un compito educativo per far incontrare e dialogare le persone, il coinvolgimento è necessario per far crescere la comunità ed è una delle sfide che ci attende se si vuole essere una società civile in cui tutti si sentano veramente e responsabilmente di far parte…
di Hervé Cavallera
Le sagre paesane, volte di solito a celebrare il Santo patrono (feste patronali), ma anche positivi eventi come il raccolto o un particolare cibo, si perdono, per così dire, nella notte dei tempi.
Il Salento, come ogni parte d’Italia, ne vanta tantissime e non si può elencarle tutte, considerando i tanti centri della provincia di Lecce.
Ad esse naturalmente sono da aggiungere le Festività nazionali religiose e civili come Natale, Capodanno, la Festa delle Repubblica e così via.
Una volta, la festa era sempre accolta con particolare gioia soprattutto dai bambini e ragazzi. Basti ricordare che già la domenica era un giorno felice in quanto non si andava a scuola. Poi nella festa patronale e in quelle importanti vi erano i dolci, alcuni propri della festa. Inoltre, vi erano le fiere e i piccoli vedevano e chiedevano ai genitori l’acquisto dei giocattoli. Era il momento dell’incontro e delle curiosità, come attraevano le bande musicali che, suonando, percorrevano le strade.
Chi non è più giovane ricorda molto bene che le feste rappresentavano per la comunità in cui si viveva un momento nel quale si interrompeva la routine di una realtà prevalentemente agricola, e quindi scandita dalle stagioni e dalla levata e dal tramonto del sole, e ci si riuniva nella pubblica piazza liberamente e allegramente, e si comunicava.
Il clima festaiolo era di fatto per lo più connesso con l’evento religioso che trovava (e trova) per il pubblico il momento più appariscente nella processione con la statua del Santo.
Di fatto i buoni pranzi e quant’altro non erano che una forma di testimonianza della benevolenza del Patrono a cui andava il ringraziamento solenne. Di qui lo spettacolo delle luminarie, per alcune delle quali il Salento è noto in tutta Italia.
Accadeva – e accade tutt’oggi – che tra paesi o tra frazioni dello stesso paese si facesse a gara a chi riusciva a realizzare il festeggiamento più spettacolare. Il che ha condotto, dappertutto nella Penisola, a spostare l’attenzione dalla celebrazione liturgica in sé alla festa come spettacolo.
L’elemento laico ha finito col prevalere su quello religioso con la presenza di cantanti, ghiottonerie, balli e tant’altro. Questo sempre a prescindere dalle sagre chiaramente mangerecce come a Tricase la Sagra di San Vito Cucuzza e Cadduzzu» (9 agosto) e la Sagra de la Pasta fatta a casa (17 agosto, frazione di Depressa) per fare qualche esempio di sagre che hanno caratterizzato un determinato prodotto.
Ora, che le festività patronali e le sagre continuino ad esserci è un fatto chiaramente positivo in quanto rappresentano la nostra tradizione, solo che si stanno risolvendo, alcune volte, in puro spettacolo volto alla promozione turistica e al guadagno (basti pensare alla “Notte della Taranta” che è divenuto un notissimo e fortunato festival della canzone popolare, ma che ha perduto ogni rapporto con l’ancestrale fenomeno del tarantismo).
Sotto tale profilo sono soprattutto da tenere presenti le festività religiose, dove la celebrazione del sacro dovrebbe essere prevalente e veramente sentita.
Tali feste, infatti, non hanno alcun scopo di lucro, anche se in alcune le spese per luminarie e complessi musicali sono ingenti e non mancano le difficoltà a far quadrare il bilancio.
Né solo questo. È in forte crescita, purtroppo, il fenomeno della denatalità. I giovani sono sempre meno e talvolta disattenti alle tradizioni. Il mondo dei social networks è per lo più quello della comunicazione quotidiana, dell’immersione nel contingente.
Avviene così che viene meno quel cambio generazionale che vi è stato per secoli e i componenti dei comitati festa, i quali curano l’aspetto esteriore delle feste religiose dedicate alla Madonna e ai Santi venerati nella parrocchia di appartenenza, non hanno il naturale ricambio, spesso apportatore di nuove idee.
Così, generalizzando un discorso che ovviamente è diverso variando i luoghi e le persone, si rischia, soprattutto per le feste patronali, che tutto si traduca in un déjà vu, in un prodotto già visto e quindi poco attraente. Tuttavia, occorre non confondere due elementi che sono diversi e, però, accomunati.
Il primo e fondamentale è la venerazione del Santo Protettore, con le cerimonie sacre pertinenti che riguardano esplicitamente il Parroco e nel quale si manifesta la liturgia propria del culto. Il secondo è il bisogno di accrescere la partecipazione della comunità attraverso manifestazioni non ripetitive e che coinvolgano i giovani e non solo i giovani.
L’accortezza è appunto quella di conservare il passato nei suoi elementi qualificanti, i quali consentono di non perdere l’identità di una cultura, di un luogo, in un mondo in cui tutto sembra invece omologarsi e smarrirsi nel contingente, e al tempo stesso arricchire la manifestazione con innovazioni mirate al coinvolgimento dei presenti.
La festa è un fatto corale, di partecipazione collettiva e non un mero spettacolo a cui si assiste da estranei. Occorre sentirsi parte della comunità. Ciò è oggi molto difficile poiché si tende a vivere una comunicazione virtuale, tramite i social.
Per tale motivo, far partecipare fisicamente e coinvolgere in una festa diventa anche un compito educativo per far incontrare e dialogare le persone. Si capisce che tutto questo non è facile, ma il coinvolgimento è necessario per far crescere la comunità ed è una delle sfide che ci attende se si vuole essere una società civile in cui tutti si sentano veramente e responsabilmente di far parte.
Approfondimenti
Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..
di Hervé Cavallera
Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.
Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.
Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.
Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.
Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.
Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.
Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).
È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.
Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.
Festa o vacanza?
Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.
Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.
Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.
È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?
Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).
Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.
Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.
Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.
E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.
Approfondimenti
Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte
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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.
I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.
Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.
Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.
La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.
Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».
Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».
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Muretti a Secco e Pajare
Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre
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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)
Dario ha fatto della sua passione un lavoro.
Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».
Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».
Qual è in particolare il tuo lavoro?
«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».
In particolare, a cosa ti riferisci?
«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».
Il cemento non lo utilizzi affatto?
«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».
Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?
«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».
E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?
«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».
Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»
Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:
«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».
PER MESCIU PIPPI, CUSTODE DELL’ARTE EDILIZIA CLICCA QUI
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