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Approfondimenti

Il giorno più triste della storia di Tricase

La rivolta di 80 anni fa: ripercorriamo il 15 maggio 1935

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Ripercorriamo (con Ercole Morciano) la storia della rivolta di Tricase di 80 anni fa, approfondendone il racconto dopo l’intervista ad un testimone vivente, Rocco Longo, pubblicata sul nostro ultimo numero in distribuzione. 


Una sera a  metà di maggio: fuoco…fuoco…fuoco


È un mercoledì il 15 maggio 1935, il giorno più triste della nostra storia. Sono passate le otto e mezza di sera: davanti al municipio una folla vociante, un frastuono crescente. Parecchi sono lì da alcune ore; altri stanno rientrando dai campi e si fermano; molte sono le donne. Davanti al robusto portone dell’ex convento le scene più frementi: da una parte donne e uomini esasperati e in difesa del “ boccone di pane per loro e i loro figli” che vedono minacciato; dall’altra la forza pubblica, armata, che ha l’obbligo di impedire l’accesso e la devastazione della sede comunale, segno dell’autorità dello stato, e dello stato fascista, al massimo del consenso a pochi mesi dalla fondazione dell’effimero impero: uno stato che non può tollerare alcun segno di debolezza o di cedimento verso nessuno.


Ad un certo momento si odono degli spari e la folla comincia ad ondeggiare. Gli spari si susseguono ritmici, ad altezza d’uomo ricordano i testimoni, a intervalli brevi ma costanti: il loro suono lacerante si sente una volta, una seconda una terza…quella umanità indignata, lì radunata  per difendere il diritto al pane e al lavoro si sbanda, ammutolisce, si disperde. Al rumore indistinto si sostituiscono ora  i lamenti dei feriti, le  richieste d’aiuto dei caduti, i rantoli di chi muore.


Il tragico bilancio


Alla fine della giornata si contano cinque morti, tre donne e due uomini. I loro nomi, scolpiti sul marmo, saranno ricordati per sempre. Il più giovane, un ragazzo di 15 anni, è Pierino Panarese, di famiglia artigiana; la più anziana è Donata Scolozzi, contadina di 56 anni. Contadino è pure Pompeo Rizzo, di 37 anni. Cosima Panico e Maria Assunta Nesca, rispettivamente di 43 e 44 anni sono operaie tabacchine. I feriti sono 22, due donne e venti uomini: i più gravi sono Angelo Colangiulo e Rocco Colazzo, verrà loro amputata una gamba. Sono ricoverati all’ospedale di Maglie dopo le prime cure: Domenico Raffaele Fortiguerra, Antonio Parata, Filippo Legari, Giuseppe Nicola Casamassima, Torquato Bardoscia, Rocco Scolozzi, Alfonso Ghionna. Curati dai medici di Tricase: Salvatore Marra, Francesco Scarascia, Vito De Carlo, Giosué Mastria, Luigi D’Aversa, Maria Rosa Rizzo, Cosimo Longo, Giuseppe Cortese, Rocco Turco, Giuseppe De Marco, Vito Turco, Cesare Zocco e Maria Luisa Sciurti. Le ferite subite dai dimostranti, eccetto una sciabolata, sono  tutte dovute a proiettili. Nove i feriti tra le forze dell’ordine, medicati per escoriazioni ed ematomi  causati dal lancio di sassi.


L’antefatto


La causa prossima di un evento così luttuoso e lacerante per un paese come Tricase, i cui abitanti sono noti per la bontà della loro indole e per la civiltà dei loro comportamenti, è il  decreto del 30 aprile 1935 col quale il ministero delle corporazioni, per un maggiore controllo politico, scioglieva tutti i consigli di amministrazione dei consorzi agrari della provincia di Lecce – eccetto quello di Matino –  per fonderli nel consorzio agrario cooperativo provinciale di Terra d’Otranto. La notizia, tramite il prefetto di Lecce, è resa nota il 14 maggio 1935. Conosciuto a Tricase il contenuto del decreto, il malcontento si estende dai componenti del consiglio di amministrazione ai coltivatori di tabacco e alle tabacchine che, a torto o a ragione, vedono nel decreto ministeriale e nelle sue conseguenze un attacco alla già magra economia famigliare e a quel po’ di sicurezza che un lavoro, pur se stagionale, porta nelle loro case. Il nervosismo delle operaie del consorzio comincia a diffondersi  nonostante gli inviti alla calma del direttore Mario Ingletti.  Già  alle 7 di mattina   egli riesce a convincere le operarie ad entrare in fabbrica e non scioperare perché è vietato. A lui si uniscono, nell’invito alla calma l’ispettore del lavoro Ciro Facchini, l’avv. Vincenzino Resci,  sindaco del consiglio di amministrazione e il maresciallo dei carabinieri, Mossuto . Anche in altri tabacchifici di Tricase si diffonde la paura; si vede  la miseria  in agguato e divenire incerto anche quel poco di pane che si riesce ad avere col duro lavoro. La sfiducia verso le autorità locali cresce perché – ed ecco le cause della rivolta che potremmo dire remote – in pochi anni la cittadina aveva subito un declino con  riflessi negativi anche nel campo economico. Il trasferimento a Lecce dell’officina e deposito ferroviario che dava lavoro a 100 famiglie; lo smembramento del territorio della  pretura di Tricase  per far nascere quella di Alessano; il declassamento della tenenza dei reali carabinieri a semplice stazione; e ancor più  la drastica riduzione  della superficie comunale concessa dal monopolio per la coltivazione del tabacco da 300 ettari a 130; è facile capire perché la fusione del consorzio venisse temuta come un ulteriore decadimento del paese, causa di miseria e di fame.


Da pacifica manifestazione a rivolta


Nel pomeriggio i soci del consorzio si ritrovano nella sezione dei combattenti, in via S. Spirito, per la firma di una «supplica» da inviare a Mussolini e chiedergli di esentare dalla fusione il consorzio cooperativo di Tricase com’è stato fatto per quello di Matino. Le operaie intanto si radunano nei pressi della piazza per ascoltare «una conferenza » sulla situazione e dimostrare con la protesta il loro disagio. La manifestazione inizia pacificamente, ma gli animi sono esacerbati forse perché non si ha fiducia nelle locali autorità politiche e amministrative. Il podestà Edgardo Aymone, al fine di portare la calma, fa affiggere alle 18.30 un manifesto in cui riporta testualmente la lettera di rassicurazioni del prefetto, invita i cittadini a tornare tranquilli al lavoro e ad avere fiducia nel governo fascista. Il manifesto ottiene l’effetto contrario perché viene interpretato come «una presa in giro» o peggio come una  «minaccia». Le operaie si radunano vicino all’ingresso del municipio, dove già vi sono i soci del consorzio che hanno firmato la supplica  e tutti gridano  «viva il duce, viva il re, abbasso il podestà, vogliamo lavoro». La tensione aumenta e il podestà tenta di parlare ai dimostranti  per chiarire la sua posizione e informare sui passi fatti e da fare, ma la sua voce viene sopraffatta dagli urli. Tenta di parlare  l’avv. Domenico Caputo  dal sagrato della chiesa di S. Domenico: accolto da iniziali battimani,  il popolare don Mimmi, quando vuole convincere i dimostranti che non verranno trasferite le fabbriche e non perderanno il lavoro è  soverchiato dai fischi e costretto a ritirarsi. Fallisce anche il tentativo  di parlare alla folla dell’avv.  Alberto Ingletti,  dirigente sindacale dei lavoratori dell’industria sui quali ha un buon ascendente; affacciatosi sul balcone del circolo del littorio, sovrastante il bar di Giovannino Dell’Abate,  è costretto a rientrare quasi subito.

Nel frattempo giungono le forze dell’ordine per presidiare il municipio: anche da parte loro si fanno appelli alla calma ma viene paventato l’assalto al municipio  nel quale si trovano il podestà, il pretore Biagio Cotugno e il medico Giuseppe Cortese, segretario del fascio locale. La situazione peggiora sempre di più e alle grida di protesta si aggiunge il lancio di sassi verso il portone e le finestre del municipio, e si  mettono in atto tentativi di incendio e di abbattimento del portone. Ai militari viene dato dai superiori l’ordine d’innestare le baionette. A questo punto il podestà, il pretore e il segretario del fascio, temendo il peggio, escono dagli uffici comunali dal retro dell’ex convento, dalla parte dell’asilo infantile  attraverso il giardino.  L’iniziativa passa pertanto all’autorità militare; il protocollo dell’epoca per le forze dell’ordine – siamo in pieno regime fascista –  in casi del genere  prevede di sparare…e non sono previsti colpi in aria.


L’inchiesta


L’inchiesta  che segue  i dolorosi fatti del 15 maggio è lunga e caratterizzata da delazioni e lettere anonime che rendono pesante e sospettoso il clima di quei giorni.  Alle indagini e agli interrogatori seguono gli arresti.  Di notte bussano alle case e portano via i sospettati traducendoli nel carcere di Lecce. Gli inquirenti svolgono le indagini basandosi sul teorema del «complotto» e della «istigazione alla sommossa».  Alla fine dell’istruttoria 22 imputati sono prosciolti e 52 rinviati a giudizio.


Non è bello vivere a Tricase durante il periodo delle indagini. Il clima del sospetto crea una cappa di piombo che rende difficili i rapporti tra le persone. Anche in questa triste evenienza è la famiglia e la parentela più prossima che fanno da ammortizzatori sociali. Vi sono anche episodi di solidarietà umana e cristiana che servono a ricomporre lentamente un clima più sereno. Il vescovo di Ugento, Teodorico De Angelis, su richiesta dell’arciprete Stefanachi, si fa interprete di tanti drammi umani che deprimono la vita di tante famiglie della «laboriosa e tranquilla  popolazione  di Tricase», e chiede per iscritto ai giudici una pronta conclusione dell’istruttoria per il ritorno a casa degli innocenti. Mons. Giovanni Panico, da poco ordinato arcivescovo, prima di partire per l’Australia si reca personalmente nel carcere di Lecce per visitare i detenuti. Giuseppe Scarascia, alto funzionario presso il ministero dell’educazione, si interessa per assicurare le spese di difesa per carcerati poveri. Anche Giuseppe Cortese fa difendere dal suo avvocato alcuni paesani coimputati e non in grado di pagarsi le spese legali.


Il processo, la sentenza, il ritorno a casa


Il processo in corte d’assise a Lecce, davanti  alla quale compaiono i 52 imputati,  ha inizio il 5 marzo 1936 e si conclude il 2 aprile seguente. Il collegio difensivo è composto da ottimi avvocati:  Antonio Dell’Abate e Ciro  Miranda Dell’Abate che assumono il patrocinio gratuito di molti paesani, Michele De Pietro, Francesco Tamburini, Oronzo Massari e Giovanni Guacci. Durante le fasi dibattimentali gli avvocati in pratica “smontano” il teorema della “ istigazione alla sommossa” con prove e argomentazioni convincenti. Tre accusati  sono ritenuti non imputabili perché minorenni. I 6 imputati maggiori, accusati di aver organizzato la protesta e istigato alla sommossa, sono assolti con formula piena per non aver commesso il fatto. 13 sono assolti per insufficienza di prove. Gli 11  imputati di oltraggio o resistenza a pubblico ufficiale subiscono condanne tra 10 mesi e 1 anno di reclusione. La «radunata sediziosa» contestata a 27 imputati viene ridotta  a contravvenzione di polizia e punita con 1 mese di arresto. Una semplice multa per chi aveva lacerato il manifesto. In sintesi la corte, con la sentenza del 2 aprile, riconosce valide le tesi difensive e assolve con le formule di rito oppure commina pene miti rispetto alle gravi accuse di partenza.


Il 2 aprile, la sera, verso le dieci e mezza, perché così era stata consigliato per evitare assembramenti non desiderati, tutti i tricasini processati tornano a casa liberi perché le pene erano state già scontate con la detenzione preventiva e finalmente il paese può tirare un sospiro di sollievo e si avvia a riacquistare la serenità. A dire il vero la tranquillità durerà poco perché di lì a 4 anni l’Italia entrerà in guerra  e anche Tricase avrà le sue vittime e vivrà le privazioni e i travagli che ogni guerra comporta.


La maggior parte delle notizie per il presente articolo sono state prese dall’ultimo libro dello studioso di storia locale, prof. Salvatore Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà. Anatomia di una sommossa (Tricase 15 maggio 1935), Giorgiani Editore 2015, pp. 287, illustrato, s.i.p. Se ne consiglia la lettura a quanti vogliono notizie più dettagliate sui fatti e su tutti i protagonisti che li hanno in qualsiasi modo vissuti. Il volume verrà presentato nell’ambito delle manifestazioni promosse per l’80° anniversario del tragico evento.


Approfondimenti

Gli anni passano, le tradizioni cambiano, in meglio o in peggio?

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti..

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di Hervé Cavallera

Con le Festività di inizio novembre si è entrati nell’ampio periodo delle feste di fine anno con tutte le celebrazioni rituali che esse implicano. Ora, già da un remoto passato l’essere umano ha avvertito con perplessità la fine della bella stagione, l’allungarsi del buio nelle giornate e l’appressarsi del freddo.

Ed ha collegato la fine della stagione calda e luminosa con la fine di un ciclo, che non è soltanto quello solare, ma soprattutto quello della stessa vita. Ha colto cioè il senso del trapasso con tutte le incognite ad esso legate, sì da elaborare nel corso dei millenni dei riti di passaggio tra questa e l’altra vita oltremondana. Al tempo stesso, si è pensato di illustrare il cammino del tempo secondo calendari legati al ciclo solare e a quello lunare.

Così per diverse popolazioni dell’antichità, tra cui i Celti che risiedevano principalmente nel centro Europa, il transito tra un anno e l’altro era previsto con l’attuale 1° novembre e in quel giorno, essendo poco netta la transizione tra la luce e le tenebre, il mondo dei vivi si mescolava con quello dei morti e questi ultimi potevano riapparire.

Non a caso il 2 novembre, che seguiva Ognissanti, fu scelto come il giorno della commemorazione dei defunti ed è triste constatare come oggi tanti cimiteri monumentali siano praticamente abbandonati.

Ora, il primo calendario che unificò il mondo mediterraneo fu quello giuliano, ideato dall’astronomo greco Sosigene e divenuto operativo nel 46 avanti Cristo con Giulio Cesare.

Tale calendario rimase in vigore sostanzialmente sino al 24 febbraio 1582 quando papa Gregorio XIII, attraverso la bolla Inter gravissimas, lo sostituì con vari ritocchi con il calendario tuttora esistente detto appunto gregoriano.
Il mondo cristiano ha poi inserito varie ricorrenze a tutti note, fissando le feste di precetto, ossia quelle in cui i fedeli sono particolarmente tenuti alla partecipazione della messa.

Per i cattolici sono: tutte le domeniche; Capodanno (1° gennaio); Epifania (6 gennaio); Assunzione di Maria Vergine (15 agosto); Tutti i Santi (1° novembre); Immacolata Concezione (8 dicembre); Natale (25 dicembre).
Accanto alle feste religiose ogni Stato ha aggiunto per suo conto le feste civili, tra le quali in Italia ricordiamo almeno il 1° maggio (festa dei Lavoratori) e il 2 giugno (festa della Repubblica).

È evidente che se la divisione del tempo in anni, mesi, settimane, giorni, corrisponde ad una esigenza di dare ordine in una realtà ciclica (il rinnovarsi delle stagioni), il concetto di festa si collega, per l’aspetto civile, ad un evento di cui si è particolarmente orgogliosi, e, per quello religioso, è volto ad onorare la Divinità e i Santi.

Sotto tale profilo la festa sia religiosa sia civile non è da intendersi come una vacanza, ma come una celebrazione. Certo nei giorni festivi non si lavora, ma essi non si dovrebbero intendere come meramente vacanzieri.

Festa o vacanza?

Al contrario, dovrebbero servire a raccogliere i componenti di una comunità, quotidianamente intenti ad attività differenti, in uno spirito celebrativo comune.

Una comunanza soprattutto spirituale che può naturalmente trovare un momento gioioso particolarmente nei pasti che una volta erano frugali per i più e ai quali si riusciva a fare qualche eccezione nei giorni di festa.
Così a Natale si poteva arricchire la tavola con il panettone o il pandoro, come nel cenone di Capodanno si mangiavano lenticchie (ritenute ben auguranti) e cotechino.

Sono solo pochi esempi di cibi per così dire “nazionali”, mentre ogni regione aveva (e in gran parte ha) i suoi piatti tipici. Per tale aspetto, nelle feste (e soprattutto in quelle religiose) il sacro si mescola col profano, la speranza del premio ultraterreno con il buon piatto, il senso della fratellanza spirituale con quello della buona compagnia. In ogni caso si percepisce o si dovrebbe percepire il riconoscimento del sacro confermato dalla grazia di star bene.

È così ancora oggi? Non proprio. Nella nostra società si è imposto e si va imponendo un modo di essere sempre più materialistico e consumistico. L’esempio più vistoso è Halloween, la notte di Tutti i Santi, che alla luce di evidenti influenze anglosassoni, è divenuta la festa del macabro e del soprannaturale in una atmosfera neopagana e consumistica. Che dire poi di prodotti come il panettone o la colomba che si cominciano a vendere mesi prima di Natale o di Pasqua?

Le due stesse massime festività della Cristianità (la nascita di Cristo e la Sua resurrezione) passano quasi in second’ordine nella loro specificità di fronte alle spese, ai doni e a quant’altro di godereccio possa esistere. Anche in questo caso occorre precisare che non vi è nulla di male nel mangiare il panettone e la colomba, che è bene brindare purché non si ecceda, che qualche bambino può ben dire Trick or Treat (Dolcetto o Scherzetto).

Il problema è che il momento del divertimento, dello spettacolo, della pubblicità e del consumo sta divenendo prevalente rispetto al significato di ciò che si dovrebbe celebrare. Una volta vi era uno stretto legame tra il significato della celebrazione e gli eventi conseguenti (si pensi alle processioni, ai piatti particolari e così via), ora tutto si va modificando e si impone solo la dimensione del consumo e dello spettacolo.

Certo, il mondo da sempre va cambiando ed è così, ma il mutamento positivo è quello che sa conservare i valori e mettere da parte l’inutile; in tal modo una civiltà cresce e si sviluppa e le persone maturano. Che le cosiddette tradizioni rimangano solo per attrarre turisti o per generare consumi certamente non è positivo e rischia di ridurre tutta la realtà al semplice godimento – non sempre corretto né di tutti – dell’immediato.

Quello che veramente oggi dovrebbe contare, in una società dove soffiano pericolosi venti di guerra e l’Occidente è pervaso da un edonismo individualistico, è il recupero della dimensione spirituale che accomuna gli animi e li rende aperti al dialogo e agli affetti disinteressati.

E da tempo immemorabile tale è stato il compito della famiglia, della scuola, della Chiesa, istituzioni che attraversano un momento non facile, ma nel rilancio della loro funzione risiede la salvezza di un Occidente che va spegnendosi nelle luci artificiali dei consumi.

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Approfondimenti

Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

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