di Ercole Morciano
Le “storiche” farmacie di Tricase, antenate di quelle odierne, compresa l’ultima istituita in via Olimpica, erano entrambe ubicate nel centro antico del paese.
Molti della mia età le ricordano unitamente ai farmacisti che ne erano i proprietari: quella del dott. Spiridione Barbara, nella ex via Municipio, ora via Toma, dove vi è un’erboristeria e quella del dott. Salvatore Minerva, in piazza Vittorio Emanuele, ora Pisanelli, dove si vendono bevande.
Ai farmacisti si dava, all’antica, il “don” come segno di rispetto: così ci avevano insegnato e noi ragazzini – negli anni ’50 e ’60 – senza pensarci, continuavamo la tradizione.
Don Toto era altissimo – da piccolo lo vedevo così – sempre col camice bianco, col capo un po’ inclinato, il baffo curato e il volto in genere sorridente.
Don Spiridione lo ricordo più basso, anch’egli con la testa un po’ piegata e spesso corrucciato: così mi sembrava; anche la sua voce, la percepivo come stizzosa e – ricordo – mi incuteva un po’ di timore; ma don Spiridione era in fondo una persona buonissima.
Entrando nella sua farmacia, i miei sguardi erano attirati da un contenitore di vetro dove, in bella vista, c’erano dei cioccolatini, involti in carta stagnola di tanti colori, che mi facevano venire l’acquolina in bocca.
Mia madre, con pazienza, mi doveva ogni volta ricordare che erano dei lassativi – ed era vero – e questo metteva le cose a posto perché ti faceva passare la voglia.
NEL NOVECENTO
Erano tempi, per noi ragazzini, molto duri: ogni anno, a fine primavera, toccava a molti un purgante che poteva essere una orribile bevanda pungente ed effervescente, oppure olio di ricino (in entrambi i casi, se non ti chiudevi il naso non potevi ingoiare).
Per chiudere con i ricordi legati alle farmacie della mia fanciullezza, una curiosità: riguardo agli aiutanti dei farmacisti i temperamenti si invertivano. L’aiutante di don Spiridione, Vito Corciulo, indossava un camice nero e lo ricordo gentile, sorridente; a me sembrava timido e un po’ preoccupato; l’aiutante di don Toto, Vito Scorrano, indossava un camice bianco, e lo ricordo molto serio in volto; parlava con un eloquio chiaro e possente che sembrava non ammettere repliche.
Le due farmacie, Barbara e Minerva, esistevano sicuramente nel 1912: risulta che nel mese di dicembre i medicinali ai poveri di Tricase furono dati “dal chimico-farmacista Salvatore Minerva e dall’altro farmacista Spiridione Barbara”.
Originario di Alessano, Barbara si era laureato a Napoli nel 1910 e poco dopo aprì la farmacia a Tricase dove si trasferì e formò la sua famiglia.
Salvatore Minerva era di antica famiglia tricasina: anch’egli si era laureato presso l’Università di Napoli e, annesso alla farmacia, aveva un laboratorio di analisi chimiche, come vi era scritto con eleganti caratteri sul vetro della porta d’ingresso.
I farmacisti Barbara e Minerva si distinsero nei periodi della triste miseria quando si pagarono a prezzo di costo, o dilazionati nel tempo, i farmaci acquistati dalla Conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli per i poveri.
Entrambi si impegnarono anche in ambito civile: il dott. Barbara fu eletto sindaco di Tricase più volte e il dott. Minerva fu, per parecchi lustri, ispettore onorario ai monumenti.
NEL CINQUECENTO
Le notizie più antiche riguardanti i farmacisti di Tricase risalgono alla fine del Cinquecento.
Il loro nome ufficiale era “aromatari” e, per legge, non potevano essere anche medici (fisici o cerusici) per evitare conflitti d’interesse; gli aromatari cinquecenteschi erano Domenico Musca e Francesco Mecchi.
Nelle loro botteghe, non solo si preparavano e si vendevano i medicinali ma, specie in quella del Musca, si rogavano atti notarili o si riuniva l’università, il consiglio comunale di allora.
Entrambi appartenevano a note famiglie tricasine: i Mecchi erano una famiglia storica, vi è un altare di loro patronato e col loro blasone nella chiesa di San Domenico, mentre ai Musca apparteneva Domenico, lo scultore che ha firmato il fonte battesimale della chiesa madre, suo capolavoro scolpito nel 1547.
NELL’OTTOCENTO
Dal bilancio del 1866 della Congregazione di Carità di Tricase apprendiamo che vi erano a Tricase due farmacie e i farmacisti erano Antonio Legari e Michele Aprile: “Per i medicinali somministrati ai vari poveri” ebbero rispettivamente £. 102 e £. 68.
NEL SETTECENTO
La notizia più completa ci viene però dalle carte dei Domenicani di Tricase: essi nel 1730 avevano, nei locali del convento, una spezieria o spettiaria (speziale era il farmacista nel ’700) di medicinali che affittarono a Giovanni Andrea Longo di Andrano per l’importo annuo di 20 ducati.
Il contratto prevedeva che fossero date gratis tutte le medicine che i medici avessero prescritto “alli religiosi di famiglia di detto monastero”.
La stessa farmacia, nel triennio precedente, era stata affittata a Giovanni Battista Stendardo e, dall’atto di locazione, apprendiamo che vi erano 246 tipi di medicinali.
Dalla medesima fonte ci è pervenuto anche un parziale, ma interessante elenco di ordigni necessari alla preparazione delle medicine, che riporto integralmente nel linguaggio d’epoca: «2 bilance, due sedazzi (filtri) uno di seta e l’altro di pelo, una grattacaso (grattugia) piccola, fuselli e mezzi fuselli, lancelle, sottocoppe, mortai di diverse grandezze, una ciarla (contenitore) [di cristallo] di Boemia, storte di vetro, lambicchi di vetro e di rame, caraffoni (bottiglie col manico) grandi e piccoli, ecc.»