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Approfondimenti

Volontari del 118: “Siamo massacrati”

Andiamo avanti a suon di promesse ma siamo completamente sfiduciati: se non verremo ascoltati, saremo costretti a fare un passo indietro

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«Il volontariato nel 118 fa comodo: siamo massacrati. Andiamo avanti a suon di promesse ma siamo completamente sfiduciati: se non verremo ascoltati, saremo costretti a fare un passo indietro. A costo di dover fare collassare il sistema».


Marcello e Devis (nomi di fantasia) sono due autisti-soccorritori volontari del 118 in provincia di Lecce. Il loro grido di protesta è l’eco di un disagio ormai indicibile.

Quello che vivono centinaia di operatori della macchina dei soccorsi a livello nazionale.


È una storia di rischi, sacrifici e impegno che non vengono ripagati con alcuna tutela. Marcello e Devis hanno vissuto in prima persona il recente tilt del “Dea” del Vito Fazzi.


«Il Dea è al collasso», ci raccontano, «i posti in degenza sono pieni. Molti dei letti sono in uso a pazienti arrivati da altre zone in difficoltà fuori provincia. Questo fa sì che l’accesso all’ospedale venga crescentemente contingentato: il quadro clinico di ogni paziente viene soppesato per scongiurare il rischio di sovraccaricare la struttura con chi potrebbe essere preso in carico da altri nosocomi. Così si creano code di più ambulanze, in fila per ore con equipe di soccorritori fermi ad aspettare (prima al freddo, ora paradossalmente sotto ad una tenda appena realizzata, dove si finisce per rischiare l’assembramento) per poi esser dirottati verso altri ospedali».

Sarebbe semplice chiudere il quadro in nome del capro espiatorio Covid.


Ma prima di affondare sotto ai colpi del Coronavirus, la sanità rischia di andarsi a incagliare contro un altro iceberg: quello del cattivo utilizzo del 118 e della scarsa considerazione di tutte le componenti che vi lavorano.


«Quotidianamente ci ritroviamo ad effettuare interventi per patologie croniche che non presentano alcuna urgenza», raccontano Marcello e Devis, «purtroppo il più delle volte sono i medici di base ad indurre i pazienti a chiamare il 118 anche quando non dovrebbero.


È un abuso che si verifica a volte per scavalcare la lunga attesa cui si va incontro per una visita programmabile, altre volte a causa della paura che molti medici nutrono di entrare in contatto con i pazienti in questo momento critico. Di contro, poi, tantissimi utenti, nel richiedere l’intervento del 118, nascondono sintomatologie tipiche del Covid o negano di esser entrati in contatto con positivi. Il tutto per il timore di doverne affrontare le conseguenze (quarantena, ecc). Questo ci espone a tante situazioni di rischio contagio. Siamo costantemente mandati allo sbaraglio e talvolta diventiamo noi stessi vettori del Covid senza saperlo.

A tutto ciò, si aggiungono lo sconforto e la paura di chi è sul campo senza alcuna tutela».

Gli autisti-scorritori volontari, che non sono chiaramente alle dirette dipendenze delle Asl, ricevono un rimborso che definire simbolico sarebbe un eufemismo. Il costo che il sistema sanitario sostiene per il loro prezioso lavoro non raggiunge quello del carburante che consumano le stesse ambulanze che loro guidano.

«Seguiamo gli stessi corsi professionalizzanti che seguono altre figure che intervengono assieme a noi», ci spiegano, «quali ad esempio gli infermieri. Ma non figuriamo in nessun albo deontologico e non siamo riconosciuti da alcun tipo di tutela.


Se ci ammaliamo, la profilassi ce la facciamo da soli. Alcuni di noi, devono addirittura sostenere il costo del tampone se apprendono di essere entrati in contatti con dei casi Covid sul lavoro. Siamo completamente sfiduciati dopo innumerevoli promesse dalla politica in giù, ma oggi come mai chiediamo a gran voce l’internalizzazione. Prima ancora del giusto riconoscimento economico (quasi sempre siamo al lavoro oltre le ore previste dal turno, senza che ci venga riconosciuto nulla), chiediamo dignità. Vogliamo che la nostra figura professionale venga riconosciuta e stabilizzata.


Siamo stanchi di rischiare sempre e solo sulla nostra pelle».

Non abbiamo potuto che pensare a quante volte in questi mesi si è parlato della pandemia come di una guerra e degli operatori sanitari come degli eroi. Marcello, Devis e centinaia di loro colleghi non chiedono una medaglia, né l’onore.


Pretendono quella dignità per cui le belle parole non bastano. «Altrimenti» ammettono, «saremo costretti a fare un passo indietro e scendere dalle ambulanze».

Lorenzo Zito


Approfondimenti

Mesciu Pippi, custode dell’arte edilizia

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte

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In nostro approfondimento sulla tradizione del costruire salentino si chiude con una figura storica dell’edilizia salentina.

I più attempati si ricorderanno certamente di Mesciu Pippi.

Al secolo Raimondo Giuseppe Marra, nato nel 1943 a Montesano Salentino, anche se all’anagrafe risulta Miggiano, di cui il suo paese, all’epoca, era ancora frazione. A 15 anni iniziò a lavorare in cantiere e, da allora, l’arte edile è diventata la sua vita.

Tanto da essere considerato un custode della lavorazione tradizionale e un vero e proprio maestro delle volte a stella, a squadro e a botte.

La sua storia è riportata nel libro “Il cantiere edile come biografia e memoria”, scritto dall’architetto Venanzio Marra, figlio di Raimondo Giuseppe.

Mesciu Pippi cita il suo maestro: «È stato Donato De Matteis, un abile costruttore di Montesano. Poi ho avuto tanti altri maestri, tra cui Ippazio Morciano, mesciu Pati, di Tiggiano. Dopo aver lavorato con lui, nel 1973, ho dato vita alla mia attività».

Nonostante sul finire degli anni 70 stesse cambiando il modo di costruire passando dalle strutture interamente in muratura, con copertura a volta, ai sistemi in cemento armato, con le strutture puntiformi e i solai, Mesciu Pippi è rimasto legato alla tradizione: «Il passaggio dalle costruzioni tradizionali a quelle moderne non è stato indolore. Il cantiere tradizionale veniva sostituito da un cantiere in cui l’esecuzione delle opere diveniva più veloce, aumentava la standardizzazione della componentistica edile. Ma spesso si perdeva parte della sapienza costruttiva e le maestranze diventavano sempre più dequalificate. Sin dal 1975, quando capitava di demolire una volta (per esempio a stella) per costruire una struttura moderna con i solai piani, pensavo che i nuovi edifici non sarebbero durati così a lungo. Insomma, si demolivano strutture fatte ad arte per sostituirle con altre che non davano la stessa garanzia».

PER L’INTERVENTO DEL CONSERVATORE – RESTAURATORE GIUSEPPE MARIA COSTANTINI CLICCA QUI

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Muretti a Secco e Pajare

Costruire salentino: Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo “riporta in vita” le pietre

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Con Dario Damiano Profico di Gagliano del Capo siamo al quarto capitolo del nostro approfondimento sulla tradizione dell’edilizia salentina (dopo l’intervento del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini, il Coccio Pesto e le Cementine e le Volte a Stella)

Dario ha fatto della sua passione un lavoro.

Da quasi 25 anni la sua mission è restaurare muretti a secco e pajare che, ipse dixit, «ricostruisco com’erano all’origine».

Anche Dario conferma che la «richiesta di lavori tradizionali è alta sia perché il risultato è indubbiamente bello da vedere sia perché, per questo tipo di lavori, ci sono possibilità di accedere a specifici finanziamenti. Il ripristino dei muretti a secco, in modo particolare, è molto richiesto».

Qual è in particolare il tuo lavoro?

«Riportare il tutto com’era un tempo con lo stesso tipo di lavorazione. Da non confondere con ciò che fanno taluni, utilizzando metodi non indigeni che danno un risultato finale diverso rispetto a quello che erano i muretti a secco originali del Salento, rovinandone peraltro l’estetica».

In particolare, a cosa ti riferisci?

«All’utilizzo del calcestruzzo e al mancato utilizzo della terracotta. Sia per le pajare che per i muretti ci tengo farli “a secco”, proprio come si faceva una volta. Per questo chiedo che le pietre non mi arrivino spaccate, ma esattamente come sono state scavate. In modo che io possa dare consistenza al tutto con le pietre grosse, senza utilizzare il cemento».

Il cemento non lo utilizzi affatto?

«Tendo a farne a meno. In qualche occasione sono costretto a farlo perché il committente vuol farci passare la corrente elettrica. Così, per evitare i crolli e cautelare i tubi, uso il calcestruzzo in tre strati: base, centrale e superiore perché ci metto il cordone finale a forma di “A”, per scaricare il peso al centro del muro e dare solidità a tutta la struttura».

Veniamo ai costi. Per un muretto a secco qual è il costo medio?

«Si parte da 35 euro fino ad arrivare a 90 euro a metro lineare. Dipende dalla richiesta. C’è chi vuole un muretto praticamente liscio, a fuga chiusa: in questo caso, la lavorazione richiede maggiori tempi e maggiori costi. Se uno vuole un muro che sia “uno specchio”, senza fughe, vuol dire che la pietra andrà lavorata nel minimo dettaglio e quindi il prezzo sarà più alto. Se, invece, si preferisce il metodo originale, con il minimo utilizzo del martello sulla pietra grezza locale, il costo scende».

E per le pajare? Se, ad esempio, dovessi rimetterne in piedi una di 50 metri quadri?

«Per una pajara di 50 mq, compresi gli esterni (si calcola così, NdR), occorreranno in media 8mila euro, sempre ricostruendola esattamente come era una volta, ovviamente tutta a secco».

Pajare riportate all’origine tranne che per un particolare: «Nel ricostruirla alzo l’apertura fino a due metri, due metri e 15 centimetri, perché in origine l’ingresso alla pajara era molto basso e quindi scomodo»

Qualche tempo fa Dario Profico ha fatto capolino su Rai 3:

«Erano affascinati dalla nostra storia, anche abitativa. Qualche volta è necessario che arrivino da fuori Salento per ricordarci ciò che abbiamo. Non sarebbe male stessimo più attenti a quelle che sono le nostre tradizioni».

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Volte a Stella

Costruire salentino: Donato Marra di Tricase specialista del sistema di copertura a volta

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Dopo l’introduzione storica del Conservatore-Restauratore Giuseppe Maria Costantini e il capitolo dedicato a Coccio Pesto e Cementine, (seguirà quello sul Muretti a Secco e Pajare) il nostro approfondimento prosegue con Donato Marra, imprenditore edile, 59 anni di Tricase, specialista in Volte a Stella.

Da quanti anni fa questo mestiere?

«L’azienda personale esiste da circa trent’anni, ma la prima esperienza risale a quando, adolescente, ho iniziato a lavorare con mio padre, presso la sua impresa di costruzioni.  Mio padre è stato il mio mentore e maestro, un gran maestro. È lui che mi ha “iniziato” e insegnato a creare l’arte delle antiche costruzioni, delle volte antiche, quelle storiche che si possono ammirare in Salento in tante costruzioni nobiliari».

È un dato di fatto: lo stile “salentino”, volte a stella, muretti, ecc.. è sempre più richiesto. Le risulta?

«È vero, le volte, le costruzioni tipiche salentine sono sempre più richieste. Per parte mia, una volta appresa la bellezza dell’arte salentina, ho voluto metterla a frutto: tutto quello che mi avevano insegnato l’ho restituito creando e consegnando bellezza nelle mani dei clienti. Vorrei aggiungere, però, che spesso l’eccessivo costo di queste costruzioni non è alla portata e per la tasca di tutti. Inoltre, la terra del Capo di Leuca è piena di vincoli e questo non permette di costruire molte case tipiche in campagna».

Considerata la sua esperienza, cosa le chiede maggiormente la sua clientela?

«Devo dire che sono tante le ristrutturazioni che effettuiamo, anche grazie all’arrivo dei tanti stranieri che comprano in Salento. Loro, per fortuna, sono molto attenti al recupero ed alla ristrutturazione di case, masserie o ville antiche: desiderano soprattutto che i lavori vengano eseguiti con una fedeltà all’antico maniacale e che sempre sia più vicina alla costruzione che è stata, e, aggiungo, questo è un bene per noi e per il nostro Salento».

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