Ugento
Ugento: ammesso a finanziamento il Progetto denominato Mo.S.TE.L.S.
L’Amministrazione comunale di Ugento esprime grande soddisfazione per l’ammissione a finanziamento, nell’ambito del Programma Operativo Nazionale “Sicurezza per lo Sviluppo, Obiettivo convergenza 2007-2013”, del progetto denominato “Mo.S.TE.L.S. – Monitoraggio satellitare del territorio per la Legalità e la Sicurezza” per l’importo complessivo pari ad € 133.086,88. Con il Mo.S.TE.L.S. sarà possibile dotare l’ente di un efficace sistema di monitoraggio satellitare finalizzato al contrasto dell’illegalità e al potenziamento della salvaguardia ambientale, attraverso il perseguimento dei seguenti obiettivi: Controllo dell’abusivismo edilizio; Individuazione delle discariche abusive di rifiuti; Monitoraggio dell’espianto illegale degli uliveti secolari e monumentali; Valutazione dei danni da incendio; Variazione della linea di costa; Monitoraggio delle concessioni demaniali; Danni al patrimonio ecologico e archeologico.
“Trattasi di uno straordinario risultato”, dichiara il vice sindaco Massimo Lecci, “che si aggiunge agli altri due conseguiti di recente ed aventi per oggetto, rispettivamente, la videosorveglianza urbana (importo riconosciuto pari a € 700.000,00) e il finanziamento accordato per un importo pari ad € 150.000,00 finalizzato alla ristrutturazione e rifunzionalizzazione dell’immobile, confiscato alla criminalità organizzata, ubicato in località fontanelle, e destinato ad ospitare minori in condizioni di disagio. Per tutto quanto sopra, esprimiamo un grazie profondo e sincero al Sottosegretario di Stato all’Interno con delega alla p.s., On. Alfredo Mantovano, per l’attenzione riservata alla città di Ugento attraverso il decisivo sostegno garantito alle suddette iniziative. Un grazie sentito occorre altresì riservare all’Ufficio Territoriale del Governo – Prefettura di Lecce, nelle persone del Prefetto Mario Tafaro e della sua vice Beatrice Mariano, per l’assistenza e l’ausilio prestate anche nell’occasione. Si significa altresì come, prossimamente, saranno organizzati degli incontri pubblici con lo scopo di illustrare alla cittadinanza i contenuti di ogni singolo progetto”.
Approfondimenti
«Negli anni ’70 il clandestino ero io»
Emigranti, il forum. La testimonianza di Antonio Vantagiato di Ugento. La dritta: «Appena arrivano i doganieri, scendi dal treno e risali sul primo vagone»; «Un escamotage che faceva di me un’emigrante clandestino agli antipodi»
Ci sono storie che meritano di essere raccontate perché sono parte della storia di ognuno di noi e ripercorrono usi, costumi e necessità delle epoche vissute.
Come quella di Antonio Vantagiato, 73 anni oggi, per tutti il reporter di Ugento.
«Era il 1958», racconta, «quando mio padre passò a miglior vita. Lasciò la mamma con tre figli da crescere. Io avevo appena otto anni. Mia madre lavorava nei campi ed io dovetti occuparmi di mio fratello piccolo. È stata molto importante la figura di mio nonno (Cavaliere di Vittorio Veneto), anche grazie a lui non ci è mai mancato alcunché».
«Finita la scuola, quella che le circostanze ci consentivano di frequentare», prosegue perdendosi nei ricordi, «a soli 11 anni portai a casa la mia prima paga: 150 lire per una giornata di lavoro! Non dimenticherò mai l’emozione di mia madre…».
Crescendo, si doveva decidere che fare della propria vita. E, quasi sempre, in quegli anni, la scelta era obbligata, emigrare: «Avevo 17 anni, un mio caro zio, già da anni impegnato a lavorare all’estero, mi portò con sé in Svizzera».
Il viaggio non fu propriamente lineare e qui casca l’aneddoto: «Arrivati alla frontiera di Chiasso, mi diede la dritta: “Appena arrivano i doganieri, scendi dal treno e risali sul primo vagone in testa prima della locomotrice”. Un escamotage che faceva di me un’emigrante clandestino agli antipodi».
Non fu tutto rose e fiori neanche la permanenza oltralpe: «Tre mesi di duro lavoro nei cantieri per non parlare delle baracche gelide nelle quali eravamo accampati; per avere il gas per cucinare si introduceva una moneta nella apposita fessura che faceva scattare l’interruttore meccanico e si poteva avere a disposizione per un determinato tempo il necessario al fabbisogno. Se non avessi avuto spiccioli non avrei mangiato. A fine stagione, dopo tre mesi di lavoro, comunque, portai a casa 120mila lire. Per non farmi derubare durante il viaggio, cucii il denaro nelle tasche. L’anno dopo feci lo stesso».
Parallelamente al lavoro estivo Oltralpe, nel 1967 e nel 1968, durante l’inverno, ad Ugento, ha frequentato il Professionale di Radio Tecnico. Circostanza che ha cambiato la sua vita: «Grazie ad un accordo trasversale tra la Germania e l’Ufficio del Lavoro provinciale, i migliori poterono andare a lavorare in Germania. Nel 1970, dopo aver fatto le visite mediche a Verona, mi spedirono a Baknang, nel land del Baden-Württemberg. Fui assunto da una multinazionale che produceva apparecchiature per trasmissioni intercontinentali commissionate dalla Nasa. Nel 1972 mi trasferii a Norimberga per lavorare con la Siemens. L’anno dopo sono andato alla Grundig, dove si producevano apparecchiature di intrattenimento, in particolare le primi Tv a colori. Dopo qualche tempo, mi trasferirono nel reparto dove si producevano i primi videoregistratori. Partecipai ad un corso di formazione e mediante un concorso interno, diventai responsabile delle apparecchiature di controllo. Restai a Norimberga fino al 1986».
Poi il ritorno nel Salento e, dopo una breve pausa di riflessione, iniziò la sua avventura da reporter… d’assalto, in una televisione locale che in quegli anni andava per la maggiore.
Nel corso delle sue scorribande, oltre a portare a termine i servizi ordinari commissionati dall’emittente per cui lavorava, è stato protagonista di due scoperte archeologiche («Il Dolmen di Spongano e la Cava messapica a Diso»), riuscì ad immortalare una Supernova (esplosione stellare) poi andata in onda al telegiornale.
Però, non ha mai dimenticato la sua esperienza lontano da casa, infatti ha scritto, prodotto e girato il cortometraggio (protocollato alla Regione Puglia), dal titolo “L’Emigrante”, che racconta il dramma di una famiglia «quando il marito partiva per lavorare all’estero».
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Approfondimenti
«Tramandiamo le loro storie»
Emigranti, il forum. Sefora Cucci, presidente dell’Associazione Migranti Ugento – Gemini – Marine: «Giovani più coinvolti se conoscessero a fondo le origini delle migrazioni e i sacrifici dei loro avi»
Sefora Cucci è la presidente dell’Associazione Migranti Ugento – Gemini – Marine: «La nostra è un’associazione storica (è nata nel 2007 su spinta di Antonio Preite) ed è proprio l’aspetto storico che cerchiamo di preservare. La nostra è stata una comunità fortemente coinvolta nelle migrazioni di quegli anni».
L’associazione che è anche arrivata a superare i 150 iscritti, oggi ne conta una cinquantina: «I diretti protagonisti, quelli che ancora sono in vita, hanno una certa età, quindi il nostro intento è quello di preservare e tramandare le loro testimonianze. Per questo cerchiamo di coinvolgere le nuove generazioni, portare dentro quanti più giovani possibili, compresi coloro che vivono all’estero. Sarebbero sicuramente più coinvolti se conoscessero a fondo le origini delle migrazioni e i sacrifici di chi ha aperto loro la strada».
Tre anni fa Ugento si è dotata di un monumento agli emigranti: «Nell’occasione dell’inaugurazione è nata la Festa dell’Emigrante (da allora si svolge ogni estate). Un modo per ricordare la storia dell’emigrazione sia nella nostra comunità che all’estero. Abbiamo realizzato una sorta di gemellaggio con la Svizzera; l’anno scorso abbiamo festeggiato il 150° dell’emigrazione italiana nelle Americhe. Cerchiamo di fare rete e questo un po’ ha pagato. A novembre sono stata contattata dalla Federazione delle associazioni pugliesi in Svizzera, la FAPS, per il Festival delle radici pugliesi che si svolge proprio Oltralpe».
STRANIERI DUE VOLTE
Si dice che quando uno emigra e dopo tanti anni ritorna a casa, sia straniero due volte. È vero?
«È una cosa che si nota subito. Nella nostra sede si ritrovano, stanno insieme per giocare a carte, o per altre attività. In paese, però, è come se fossero un corpo estraneo. Si sentono stranieri rispetto al concittadino che è rimasto sempre in loco. Come se in quegli anni all’estero avessero perso il legame con il resto del paese. Invece in associazione si ritrovano e stanno tutti insieme, si riconoscono».
I figli e i nipoti che sono cresciuti e rimasti all’estero come si pongono?
«Quanto appreso dai loro genitori o nonni si tramanda fino alla seconda, terza generazione ed è quello che consente a progetti come Italea di riportarli a casa. È un progetto lanciato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale all’interno del progetto PNRR e finanziato da NextGenerationEU, dedicato sia a chi conosce già le proprie origini italiane e vuole organizzare un viaggio per scoprire e ritrovare i luoghi, i costumi e la cultura dei propri avi, sia a chi le deve ancora identificare. È un legame che non si può sciogliere anche per una persona che non è mai stata nei luoghi d’origine del nonno ma sa da dove viene, sente la necessità, il bisogno, la curiosità di andare in quel paesino sperduto in Salento. Quindi anche la nostra politica dell’accoglienza dovrebbe integrarsi sempre di più sia con loro che con chi rimane».
Coinvolgere le nuove generazioni: abbiamo chiesto a Sefora di rivolgersi ai più giovani che ci leggono.
«Partire dalla conoscenza della storia è fondamentale, soprattutto quando parliamo delle nostre radici. Conoscere, sentire, capire, è importante per ognuno di noi, per non restare monchi. Loro (gli emigranti dell’associazione, NdA), quando si ritrovano, sono fantastici, raccontano tanti aneddoti e sono anche divertenti. Io, nel mio piccolo, cerco di dare un contributo. Se non lo facessi e se voi non vi avvicinaste, finirebbe tutto nel dimenticatoio. Non sarebbe giusto, né sano».
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Approfondimenti
Quando i migranti eravamo noi
In esclusiva. La testimonianza diretta di chi ha dovuto abbandonare la propria terra per garantire un futuro alla famiglia. I lunghissimi viaggi in treno e le tante umiliazioni. Il racconto di Antonio Preite, 88 anni, di Ugento
Non tanto tempo fa gli emigranti eravamo noi, meglio non dimenticarlo.
Giusto non scordare i sacrifici dei tanti nostri nonni e papà che il secolo scorso, nel dopoguerra, abbandonavano la loro terra, spesso staccandosi dalla famiglia, per lavorare in Svizzera, Belgio, Germania, Francia. Così come, prima di loro, in tanti avevano preparato la loro valigia di cartone per raggiungere gli Stati Uniti ed anche altri Paesi oltreoceano.
Lo facevano per garantire un futuro alle famiglie e, nella maggior parte dei casi, come era di usanza, per costruire la casa ai figli maschi e mettere su la dote, il corredo, per le femmine.
La partenza era motivata principalmente dall’aspirazione a offrire alla famiglia una vita migliore o, più drammaticamente, dalla necessità di provvedere ai loro bisogni essenziali. Con le loro rimesse alimentavano l’economia locale, immettendo denaro fresco.
Anche ieri, come oggi, erano gli emigranti ad aiutare casa loro, molto di più di quanto facevano (e fanno) le istituzioni internazionali o i governi dei Paesi ospitanti.
Le rimesse aiutavano (ed aiutano) a migliorare l’alimentazione e le condizioni abitative, consentivano di accedere all’istruzione, alle cure mediche. Integravano o rimpiazzavano la pensione degli anziani.
Elevavano l’immagine e lo status sociale delle famiglie che le ricevevano.
In parole povere con il loro lavoro, con il loro sacrificio, questi uomini hanno contribuito alla crescita di tutto il territorio.
Per questo abbiamo deciso di ospitare in redazione testimoni diretti e indiretti di parte della nostra storia recente.
ANTONIO PREITE DI UGENTO: «LA SCELTA ERA TRA PARTIRE O MORIRE DI FAME»
Antonio Preite, di Ugento, il più anziano della compagnia è un arzillo 88enne con spirito, memoria e lucidità da fare invidia ad un ventenne.
«Son partito la prima volta nel marzo del 1960», racconta, «arrivai a Lucerna che c’era una gelata pazzesca alla quale non ero certo abituato. Trovai lavoro come muratore in una fabbrica che aveva tantissimi dipendenti».
La prima sistemazione, come per tutti in quegli anni in Svizzera, era di fortuna: «Dormivamo in delle stanze, se così vogliamo chiamarle, sopra un ristorante. Una mattina mi alzai presto come sempre per andare a lavorare. Il mio letto era zuppo d’acqua perché una tegola aveva ceduto al maltempo. Non conoscevo il tedesco, parlavo solo italiano. Provai a parlare alla titolare ma non conoscevo il tedesco e lei non capiva l’italiano: potete immaginare… Per fortuna nel ristorante c’era un bergamasco che mi ha aiutato e, alla fine, mi hanno trovato un’altra sistemazione».
Come trattavano gli italiani?
«Almeno negli anni ’60, non ci potevano sopportare. Se ti comportavi bene alla fine riuscivi anche a conquistarli ma eri sempre guardato con sospetto. Proprio quando la popolazione svizzera aveva iniziato lentamente ad aprirsi nei confronti degli italiani, venne lanciata l’iniziativa Schwarzenbach (fuori gli stranieri, NdR), che stravolse di nuovo tutto. La legge fu bocciata alle urne con uno scarto minimo ma l’ondata xenofoba ormai era dura da fermare».
Era da solo?
«Mia moglie mi è sempre stata a fianco, i figli ci raggiungevano d’estate».
Quella di emigrare era una scelta obbligata: «Finito il militare il bivio era tra partire o fare la fame. Alla fine dobbiamo essere grati alla Svizzera perché noi emigrati abbiamo potuto sostenere le nostre famiglie e, al contempo, dare un’opportunità di lavoro a chi restava in Salento, perché investivamo i nostri guadagni per costruire casa».
Sono molti gli aneddoti che Antonio racconta della sua esperienza Oltralpe. Come quando, all’esterno di un grande magazzino nel suo primo giorno di lavoro, si rivolse in dialetto salentino ai colleghi che ancora non conosceva: «A cci tocca moi?». Con sua grande sorpresa gli si avvicinarono in tanti parlandogli nel ritrovato dialetto. Praticamente erano quasi tutti «paesani nosci».
L’altro aneddoto riguarda i primi viaggi in treno, tenendo sempre presente che si parla dei primi anni Sessanta: «Il viaggio era lunghissimo e i vagoni erano stracolmi. Si dormiva anche nel bagno».
Gli fa eco Uccio Negro di Montesardo che racconterà la sua storia più tardi: «In alcune occasioni erano talmente pieni, che mettevamo le valigie nei bagni. Così dovevamo fare la pipì nelle bottiglia di birra che poi la buttavamo dal finestrino».
Antonio Preite riprende la parola per ribadire di non essere pentito, anzi di essere «orgoglioso di aver garantito un futuro alla famiglia così come hanno fatto tanti altri conterranei. Altrimenti sarebbe stata la fame. Se mi manca dopo tanti anni? Mi piacerebbe andarci ma da turista, solo per rivedere tutti quei posti in cui sono stato».
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